“Il manifesto” oggi suggerisce di andare tutti a Milano il 25 aprile. Una grande manifestazione antifascista e pacifista. No, grazie.
Il copione politico della sinistra sembra condannato a ripetersi. Le grandi manifestazioni ormai non si traducono più in voti né in rivoluzioni pronta cassa.
Da quando? Grosso modo dalla fine degli anni Ottanta. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il fallimento del socialismo reale ha messo in crisi la sinistra occidentale, in particolare quella in passato legata all’idea leninista, nelle due vesti, rivoluzionaria pura e rivoluzionario-legalitaria. Per capirsi: Lenin e Togliatti.
Oggi la sinistra tenta di salvare il salvabile puntando su pacifismo ed egualitarismo (via stato redistributivo). Nonché, in Italia, sul rilancio del collegamento tra antifascismo, Resistenza e pacifismo.
Ora, che il governo italiano sia su posizioni di estrema destra, è un dato di fatto. Sul punto l’appello del “il manifesto” per il 25 aprile è nel giusto.
Il pericolo reale di possibili giri di vite esiste, soprattutto alla luce dei risultati delle elezioni europee di giugno, che potrebbero essere favorevoli alla destra, come pure di una possibile vittoria di Trump alle presidenziali americane di novembre.
È la ricetta purtroppo che è sbagliata. Le grandi manifestazioni hanno fatto il loro tempo e possono favorire solo incidenti e conseguenti strumentalizzazioni di un governo di estrema destra che non aspetta altro.
Ovviamente esistono anche ragioni di contenuto.
Si pensi al collegamento tra antifascismo, Resistenza e pacifismo. Si rischia l’ennesimo corto circuito. Purtroppo, come più volte osservato, antifascismo e Resistenza, sebbene nobili e necessari sotto il profilo morale, e probabilmente anche sul piano militare, furono però fenomeni elitari senza radici nella popolazione. Pochi, buoni quanto si voglia, ma pochi.
Per contro il fascismo, subdolamente, almeno fino alla guerra, fu capace di intercettare il prosaico quietismo italiano. Di qui il consenso, passivo, ma consenso. Andato poi perduto con la guerra.
Punto non secondario quello della pace. Si tratta infatti della carta più importante per la sinistra, carta che potrebbe tramutarsi in un elemento di forza, anche in termini di voti, dal momento che la speranza di invertire la tendenza elettorale non muore mai nell'attore politico. Però, attenzione, di quale pace parla la sinistra? Quella rivolta a premiare l’imperialismo di Putin e il terrorismo di Hamas.
Si noti la contraddizione. Per un verso si inneggia alla Resistenza italiana, che fu lotta armata di minoranze, ma lotta armata. Quindi nulla a che vedere con il pacifismo. Per l’altro si condanna la resistenza ucraina e israeliana, che è armata, ma condivisa dalla maggioranza degli ucraini e degli israeliani. L’esercito ucraino e israeliano sono eserciti di popolo. Cosa che non fu, nonostante la retorica successiva, la Resistenza italiana, alla quale si inneggia collegandola al pacifismo. Guerra e pace mescolate insieme, secondo le convenienze politiche del momento… Doppio registro, doppia verità. Machiavelli per pacifisti.
Pertanto – ecco il fattore omologante, privo di originalità – il pacifismo della sinistra, se dovesse avere la meglio, intercetterebbe, a sua volta, il basso continuo del quietismo italiano, che, come forma di passività sociale, sembra impermeabile alle differenze tra ventennio fascista e ottantennio (quasi) repubblicano. Insomma, Franza o Spagna, Neri o Rossi, purché “se magni”. Anzi si viva.
E qui ritorniamo al “meglio rossi che morti”, che fece le sue prove generali di pacifismo con Hitler, “rosso bruno” diciamo, poi con Stalin, Chruščëv, Brežnev e ultimi successori, i “rossi” veri e propri. Si pensi al pericolo della guerra atomica, agitato soprattutto nei primi anni ottanta del secolo scorso, dai pacifisti filocomunisti per evitare l’installazione dei cosiddetti euromissili americani in Italia. La retorica della “battaglia” pacifista per Comiso.
Semplificando, e parliamo dell'oggi: il pacifismo, come proseguimento del comunismo con altri mezzi ideologici. Un "campo largo" che si ripromette di intercettare il pacifismo di pancia degli italiani, come fece sull'altra sponda il fascismo italiano prima di allearsi con Hitler, secondo la vecchia ma vivace tradizione del populismo comunista. E qui si aprirebbe il discorso sul monopolio ideologico della Resistenza e dell'antifascismo da parte dei comunisti e dei loro eredi politici con nomi differenti. Come pure sul populismo come pre-assunto ideologico comune alla destra e alla sinistra. Per oggi tuttavia basta così. Una pena al giorno.
Che fare allora? Difficile dire. I sondaggi ci dicono che quasi due italiani su tre non vogliono sentir parlare di guerra. La destra, al di là delle dichiarazione ufficiali di fedeltà alla Nato, ha radici antioccidentali. Quindi potrebbe sempre cambiare bandiera o mandarla per le lunghe. La sinistra vuole invece la pace, sicché è più in sintonia con l’elettorato, che però – parliamo dell’elettorato- non condivide il richiamo antifascista e resistenziale, perché non lo capisce o ignora. Semplificando, primum vivere.
Ci troviamo in una di quelle situazioni storiche di apparente stallo in cui però la forza degli eventi rischia di trascinare uomini e cose. Per capirsi, con riferimento alla crisi ucraina: essere costretti dal nemico a fare la guerra anche se non si è preparati, oppure fare la pace per ritrovarsi intrappolati nella rete tesa dal nemico. Ironie della storia.
La vera tragedia per l'Occidente è la totale assenza di una classe politica, diremmo addirittura dirigente, all’altezza delle sfide, a destra come a sinistra. Che avrebbe dovuto impedire da subito l’aggressione sovietica. Come pure, sostenere Israele fin dall’inizio senza se e senza ma. Come? Mostrandosi decisa a tutto. Non balbettante e incerta. Anche all'occasione bleffando, come al poker. La politica è questo. E Mosca e Hamas in ciò sono veri maestri.
Esistono ancora margini? Difficile dire. Potrebbe essere tardi, per la pace come per la guerra. Pertanto manifestare a Milano il 25 aprile prima ancora che sbagliato è inutile. Un dubbio esercizio di retorica che non favorisce né la pace né la guerra.
Carlo Gambescia
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