Nadia Urbinati affronta su “Domani” la questione dell’ “autenticità” che la destra identificherebbe, a suo avviso, “con il parlare senza peli sulla lingua”, come nel caso del generale Vannacci. Si rivendica “l’autenticità”, scrive la Urbinati, contro l’ “ipocrisia liberale”, che invece è “civility”, urbanità, che consiste nel rispetto dell’altro, “abito che ci protegge dall’intolleranza ispettiva degli altri e dello stato” (*).
In realtà, il problema della professoressa Urbinati, che giustamente condanna il fondamentalismo della destra, nasce da una lettura giacobina dei diritti civili, soprattutto di ultima generazione (come li si denomina oggi). Che sono visti come frutto di una logica maggioritaria dai risvolti ugualitari. L’uguaglianza come una pura e semplice estensione del potere esecutivo. C’è la legge, c’è l’uguaglianza. Il suo è positivismo giuridico, e di quello tosto.
Quindi la civility, che è l’esatto contrario, è introdotta a sproposito.
La civility è qualcosa che nasce dalla coesistenza, come accettazione dell’altro, che si trasforma in costume, senza alcuna necessità dell’intervento del governo o dello stato. Non c’è alcun diritto positivo, o bacchetta magica, in grado di creare dal nulla l'accettazione dell'altro. Può piacere o meno ma serve tempo.
E qui rinviamo agli studi di Shils. Negli Stati Uniti, dove la Urbinati insegna, al riguardo, c’è una lunga tradizione comunitaria, quindi di civility dal basso. E qui rimandiamo agli studi di Nisbet, nonché di un certo sconosciuto pensatore francese dell’Ottocento, che visitò l’America. Visita dalla quale trasse due tomi. Ovviamente vi sono le controindicazioni: si pensi solo alla questione razziale. Ma fino a quando le idee non cambiano in basso, si rischia solo di aggravare i problemi. Civility perciò è anche accettazione della complessità delle questioni sociali. Nella saggezza di evitare di dare risposte facili a problemi complessi: tipo facciamo una legge cambiamo tutto. Sappiano bene di correre il rischio di essere liquidati alla stregua del Rod Steiger, sceriffo, nell' "Ispettore Tibbs". Ma chi ci segue conosce altrettanto bene la nostra battaglia contro ogni tipo di razzismo.
Ora la contraddizione cognitiva della professoressa Urbinati è nel collegamento tra civility che è un fatto spontaneo, che precede il momento legislativo, e i diritti civili promossi a colpi di policy, di decisioni che si traducono in diritto positivo, decisioni che rimandano all’attività di governo, che di spontaneo ha poco. Insomma, si confonde lo spontaneismo dei costumi, secondo la lezione di Elias sulle origini del galateo e delle buone maniere, con il costruttivismo politico, indagato e "inchiodato" alle sue responsabilità da Hayek.
Una società liberale non si può costruire per decreto. I pericolosi fallimenti del giacobinismo dovrebbero pur aver insegnato qualcosa. O no? Non si può instaurare per decreto il culto dell’essere superiore dei diritti civili e pretendere che tutti obbediscano – ecco il ruolo del diritto positivo – identificando, astutamente o meno (non sappiamo) la civility, frutto di maturazione sociale e civile, con la sostanza esecutiva, ad esempio, della nuova religione dei diritti Lgbt+ , e conseguenti provvedimenti legislativi,
Di riflesso, non si possono non mettere in conto reazioni come quella della destra. Reazioni sguaiate e sbagliate, che però seguendo la logica propagandistica del brigante e mezzo a brigante, del colpo su colpo, trasformano l’autenticità dell’ uomo dell’età della pietra in valore, come la Urbinati, identifica il concetto di civility, l’urbanità, con le piume e i pennacchi delle Queer.
Attualmente in Italia nessuno vieta alla comunità Lgbt+ (e aggiunte varie) di vivere come meglio crede. Il vero conflitto è sulle risorse del welfare state. Il che rinvia all’ ugualitarismo non al liberalismo. Qui vediamo di nuovo all’opera non il liberalismo humeano che si nutre della lenta ma sicura trasformazione del costume sociale, lasciando ai singolo il compito di scoprire quale sia il suo bene, ma il liberalismo giacobino (vero ossimoro) che pretende di sapere perfettamente, addirittura per legge, quel che è bene per ogni di singolo. Si potrebbe parlare di individualismo protetto dal diritto positivo del welfare state. Idea alla quale – attenzione – aderiscono sinistra e destra: la prima allargandolo alle famiglie “gay” (semplifichiamo) , la seconda restringendola alle “famiglie normali”. Alla fin fine la battaglia verte, sfiorando il ridicolo, come si dice in burocratese, “sul diritto di reversibilità della pensione per il coniuge superstite”. Magnifico esempio di bus boycott all'italiana.
A questo si riduce l’idea di civility propugnata dalla professoressa Urbinati. Farsi una polizza salute no? Un’ assicurazione vita in favore della persona che si ama no?
Già conosciamo la risposta giacobina: “Chi non ha le risorse, eccetera, eccetera”. Bene, l’articolo 29 della Costituzione recita così:
“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.
Non si dà alcuna definizione di cosa sia il concetto di naturale, né del sesso del coniuge. Quindi costituzionalmente – anche questo è diritto positivo – non c’è alcun divieto al matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il che automaticamente, se proprio di welfare si deve parlare, rinvia alle varie misure giuridiche e assistenziali previste per le famiglie. Quindi si proceda. Senza alcuna necessità di aggiungere leggi su leggi. E soprattutto si smetta di discutere sulla misura dei pennacchi d’ordinanza delle Queer o sul “mondo al contrario” solo nella testa di certi generali che vivono in piena età della pietra. Basta esasperazioni. A destra come a sinistra.
Questa è civility. Parleremmo di rispetto reciproco indotto dai fatti. Lasciare che la gente faccia tutto ciò che non è vietato espressamente per legge, frutto di un costume che muta lentamente, ma muta. Evitando le guerre culturali (che poi diventano civili) e soprattutto di confondere, come capita alla professoressa Urbinati, liberalismo e ugualitarismo, Hume con Rousseau. Errore neppure da primo anno di scienze politiche (vecchio ordinamento).
Carlo Gambescia
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