Michela Murgia, scomparsa l'altro ieri, come scrittrice non era un granché. Come figura pubblica era invece esattamente il contrario. Captata dalla cultura di sinistra, non sappiamo se volente e nolente. Ma, comunque sia, in quella cultura sembrava riconoscersi.
Sicché si è ritrovata catapultata al centro di polemiche politiche, fondate e infondate, comunque tipiche di quelle guerre culturali nelle quali oggi sguazzano gli estremisti di destra e di sinistra. Tutti, consapevoli o meno, discendenti di quella che si potrebbe chiamare la maledizione di Marx.
Un passo indietro. Un esempio della “centralità” politica della Murgia? La notizia della sua morte precoce è stata celebrata dalla stampa di sinistra, quasi ignorata da quella di destra.
Si rifletta. Uno scrittore deve essere considerato bravo, perché bravo, oppure perché difende le ragioni di una parte politica?
Diciamo che la neutralità letteraria pura, non è mai esistita. Va però detto che in particolare nel Novecento, impregnato di ideologia marxista, e per reazione fascista (come insegna Nolte), secolo dei totalitarismi quindi, si è sviluppata la figura dello scrittore politicamente impegnato. Di regola a sinistra, ma anche destra. Si pensi alla tragedia del collaborazionismo intellettuale francese. Sotto questo aspetto – dell’impegno – Michela Murgia viveva in pieno Ventesimo secolo, come ai tempi di Drieu La Rochelle. Per lei il tempo si era fermato.
Insomma, riteniamo che uno scrittore, un vero scrittore, per essere tale, debba vivere la realtà politica con disincanto: non nutrire illusioni politiche di alcun genere; nè di destra né di sinistra. Perché tuffarsi nelle guerre politico-culturali significa occuparsi di altro. Di qualcosa che separa dalla vera scrittura.
Per restare in Italia, un esempio di scrittore, “disincantato” e grande al tempo stesso, una specie di mosca bianca, è rappresentato da Dino Buzzati. Il suo Deserto dei Tartari resta un capolavoro assoluto. Un romanzo che parla al mondo – e qui veniamo al punto – sul quale non si è abbattuta la maledizione di Marx.
Di quale maledizione parliamo? Quella racchiusa nell’Undicesima tesi su Feuerbach, in cui Marx intimava ai filosofi, quindi anche agli scrittori, di cambiare il mondo. Il male viene di là.
Un ultimo punto. Ci si chiederà perché abbiamo citato un uomo, Buzzati, e non una donna. Perché la letteratura al femminile è di impronta marxiana, nel senso che, giustamente o meno, vuole cambiare il mondo. E di conseguenza non parla al mondo, ma solo alla parte che vuole cambiare al mondo. È divisiva, quindi politica, nel senso racchiuso nella regolarità metapolitica amico-nemico. Difficile trovare “autrici” universali. Soprattutto nel Novecento. La lista dei Nobel al femminile, a cominciare forse dalla nostra Deledda, e a parte qualche rara eccezione, è un elenco di salvatrici del mondo… Politicamente appesantitosi negli ultimi anni (ovviamente anche con molti “salvatori”…).
Shakespeare, per fare un esempio eclatante, parla a tutto il mondo, non esistono amici e nemici. Shakespeare rappresenta il gioco delle passioni umane secondo un determinismo che a un certo punto non dipende più da lui, ma dagli uomini, travestiti da personaggi: da uomini in quanto tali, senza ghirigori salvifici. Lo stesso approccio lo si ritrova nel Deserto dei Tartari.
Romanzo che si deve leggere o rileggere, dopo aver letto Accabadora , che forse è una delle cose migliori scritte dalla Murgia. Si noterà subito la differenza tra chi descrive il mondo e chi vuole salvarlo. Tra un filosofo o scrittore, prima e dopo Marx. Perché, ripetiamo, la maledizione viene di là.
Carlo Gambescia
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