Liberalismo e letteratura
Romanzi in uscita: grande autunno
italiano? Bah…
Che
c’è di liberale nella letteratura italiana contemporanea? Poco, molto poco. La nostra asserzione
può lasciare perplessi, perché
suona come apodittica: una tesi del genere impone alcuni esempi di
“liberalismo letterario” . Altrimenti, come detto, si rischia di cadere nel puro sofisma.
Ad
esempio, esiste, oggi come oggi, un Voltaire italiano? Un autore con la capacità al tempo stesso di
illuminare la grandezza dell’individuo ma anche la necessità del realismo politico. A
Voltaire si rimprovera la vicinanza al potere. Ma la sua fede nel monarca
illuminati era apprezzamento dell’individuo creatore, posto al più alto
livello, ma anche condivisione di un realismo politico capace di confermare i limiti di ogni
riformismo, soprattutto se utopico.
Probabilmente,
l’ultimo liberale volterriano della letteratura italiana, resta Leonardo Sciascia. Dopo
di lui il diluvio, anzi un diluvio di autori minimalisti, nichilisti,
utopisti nostalgici, mediocri epigoni, spesso senza addirittura saperlo di Liala,
Tomasi di Lampedusa, Simenon. E
così via.
Detto
questo, per trovare conferma, si dia
un’occhiata alle novità letterarie
autunnali (*). Per carità chi scrive potrebbe anche essere smentito da
un lettore presuntivamente annoiato
dalle ideologie. Un lettore però - mai
dimenticarlo - che crede che
il liberalismo sia il marxismo dei ricchi…
Annusiamo
allora le novità autunnali.
Susanna
Tamaro (Una grande storia d’amore,
Solferino) pare continuare a muoversi nella sfera minimalista, che le è
propria, nella quale l’individuo vive, anzi sopravvive, condannato a una specie di determinismo del
cuore, estraneo a ogni logica politica, o meglio metapolitica.
Claudio
Magris (Croce del Sud. Tre vite vere e improbabili,
Mondadori), da par suo non si mostra stanco di analizzare i
meccanismi dell’utopia, viziati però da
una coazione a ripetere che rende l’individuo il primo nemico di se stesso: la
creazione come distruzione, non come
distruzione creatrice. Amen.
Antonio
Pennacchi, autore di un romanzo
incentrato sulle Paludi Pontine degli
Anni Cinquanta (La strada del mare,
Mondadori), come del resto Antonio Scurati nel suo (Mussolini. L’uomo della provvidenza
(Bompiani), secondo volume della trilogia letteraria sul duce, sembrano dividersi, da fratelli coltelli, tra postfascismo e fascismo: in
pratica non riescono a parlare di altro, se non dell’avventura totalitaria
italiana (prima e dopo) e delle sue conseguenze sugli individui, visti però come vittime di un determinismo dei ricordi, utopico
e nostalgico al tempo stesso. Si guarda al futuro senza però staccarsi dal
passato nel bene come nel male (per gli autori, ovviamente). L’individuo non crea, ricorda. L’utopia si tramuta in una specie di impolitico patetismo letterario, imprigionato nei determinismi della memoria.
Il
resto della novità autunnali, come anticipato, rimanda a rimasticature
novecentesche (della bassa come dell’alta letteratura) intorno
a un individuo che non sa più come ingannare il tempo. Letteratura dell’ozio, da parole
incrociate, letteratura che evoca, tradendo, nell’ordine: Liala (Andrea
De Carlo, Il teatro dei sogni, La nave
di Teseo; Valeria Parrella, Quel tipo di
donna, HarperCollins); Tomasi di
Lampedusa (Simonetta Agnello Hornby, Piano
Nobile, Feltrinelli); Simenon ( Maurizio De Giovanni, Troppo freddo a settembre, Einaudi Stile Libero; Mauro Covacich, Colpo di lama, La nave di Teseo).
Salveremmo solo Raffaele
Infatti, la sua condizione di naufrago egotista novecentesco, sembra ben spiegata e rappresentata nel libro-intervista curato dalla Stanzione. Il che aiuta a capire perché, anche in letteratura, i figli finiscano sempre per pagare le colpe dei padri.
Per non parlare dei lettori...
Carlo Gambescia