Pensavamo alla battaglia di Trump sui dazi. Ha parlato di giudici “liberal”, che gli impedirebbero di introdurli.
“Liberal”, parola magica. Negli Stati Uniti indica una specie di socialdemocratico, che di liberale non ha nulla.
Non dimentichiamo che numerosi Democratici – Biden, ad esempio – non sono mai stati del tutto contrari ai dazi. In fondo i giudici criticati da Trump non entrano nel merito delle scelte economiche: condannano, piuttosto, l’abuso di potere. Se ci fosse stata una vera guerra commerciale, e non quella inventata daTrump, non avrebbero avuto nulla da eccepire.
Eppure la sinistra, ideologicamente sciatta, continua a liquidare Trump come “liberale selvaggio”, anzi “liberista selvaggio”
Una specie di riflesso condizionato L’etichetta, ripetuta ossessivamente, viene rovesciata addosso a leader molto diversi come Donald Trump, Jair Bolsonaro, Javier Milei e, in Italia, Giorgia Meloni. Tutti nello stesso sacco: quello dei nemici del popolo, del mercato senza regole, dello Stato sociale distrutto.
Ma quanto c’è di vero in questa caricatura? Poco.
Trump viene spesso dipinto come un Friedman con ciuffo, un paladino del libero mercato pronto a smantellare ogni regolamentazione. In realtà, la sua presidenza è stata segnata dal protezionismo: dazi contro la Cina, tutela di industrie “strategiche” e sostegno statale mirato. Anche durante il primo mandato, la spesa pubblica, già consistente, è aumentata ulteriormente. Insomma, Trump non è un liberista puro: è un nazionalista economico che utilizza lo Stato come strumento per perseguire obiettivi politici.
E Bolsonaro? Ha sventolato la bandiera liberista grazie a Paulo Guedes, suo “superministro” dell’economia. Ma alla prova dei fatti il Brasile è rimasto in mano al vecchio statalismo clientelare, condito da militari piazzati nei gangli decisivi. Il liberismo c’era sulla carta, nei discorsi. Nella realtà, la macchina pubblica è rimasta intatta, anzi usata per consolidare potere e clientele.
Discorso diverso per Javier Milei. Qui sì: il suo programma è dichiaratamente ultraliberista: privatizzazioni, dollaro, motosega allo Stato. Milei è l’unico che davvero merita l’etichetta, almeno a livello programmatico. Ma restano forti dubbi sulla traduzione pratica: la resistenza sociale, istituzionale e politica argentina è enorme. Vedremo.
E Giorgia Meloni? Altro che liberismo selvaggio. La sua politica economica è improntata a un conservatorismo statalista: difesa delle corporazioni, protezione delle rendite, un welfare selettivo ma pur sempre presente. Meloni parla di “mercato” quando serve, ma nei fatti il suo governo ha mostrato un attivismo interventista: bonus, incentivi, continue trattative con le categorie. Altro che Stato minimo: qui lo Stato resta ingombrante e diventa strumento di consenso politico.
Va poi detto che Trump, Bolsonaro, Milei e Meloni – oltre a non essere liberisti (con punto interrogativo per Milei) – non sono neppure liberali. Tutti, ma proprio tutti, puntano al rafforzamento dei propri poteri. Non sopportano intralci, soprattutto da parte dei giudici: stato di diritto, democrazia parlamentare, separazione dei poteri – pilastri del liberalismo – vengono visti come ostacoli.
Ecco il punto. La sinistra, nel tentativo di smascherare i “nemici del popolo”, finisce per inventarsi un “liberismo selvaggio” universale, che in realtà non esiste. Una categoria pigra e ideologica, utile solo a spaventare l’elettorato: “Attenti, questi vi lasceranno in balia del mercato!”.
In realtà, i populismi contemporanei non sono né liberali né liberisti, sono nazionalisti, statalisti, sovranisti, e a tratti persino tentati dal fascismo. Accusarli di liberismo è una scorciatoia comoda, ma fallace.
Il risultato? Due errori fatali: svuotare il termine “liberale” di ogni significato e, soprattutto, perdere di vista il vero pericolo.
Non il mercato senza regole, ma il potere senza limiti.
Carlo Gambescia

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