mercoledì 24 settembre 2025

Meloni e lo stato palestinese: ambiguità come metodo al potere

 




Oggi i giornali si occupano del delirio di Trump all’ONU. In realtà, sono esplosioni di ira e minacce, alle quali siamo purtroppo abituati. 

Noi, però, vogliamo occuparci di un’altra questione, che può favorire una migliore messa a fuoco della psicologia politica di Giorgia Meloni.

Dal riconoscimento della Palestina alla psicologia politica di  Giorgia Meloni

Prima i fatti. Alla Ottantesima Assemblea Generale dell’ONU, molti Paesi occidentali hanno annunciato il riconoscimento dello Stato di Palestina. L’Italia, invece, ha scelto la prudenza. Pur mostrando favore per la soluzione dei due Stati, non si dice d’accordo sul riconoscimento immediato. Un sì, ma senza Hamas e con la riconsegna degli ostaggi.

Si tratta palesemente di un prendere tempo. Ancora qualche mese, forse un anno, e Gaza sarà ripulita dai palestinesi. Questo non significa, però, che sia giusta la tesi di chi vuole imporre il riconoscimento di uno Stato palestinese che al momento non ha alcun requisito, né formale né sostanziale. Diciamo che questa è la direzione presa dai fatti, piaccia o meno.

La psicologia carrierista della premier

Giorgia Meloni, per dirla alla buona, si rimette al presupposto del carrierista tipo. Gioca astutamente sulla stupidità umana, sapendo che il nemico prima o poi si farà male da solo: sinistra italiana, palestinesi, israeliani, ucraini, russi, eccetera. Questo potrebbe valere anche per l’alleato Trump. 

Definiamo meglio il concetto di carrierismo. Il carrierismo è l’atteggiamento di chi punta tutto sull’avanzamento professionale come scopo principale della vita. Indica un’ossessiva ricerca di promozioni, potere e prestigio, spesso a scapito di valori personali o etici. Ha in genere una connotazione negativa, sinonimo di opportunismo e ambizione spinta. Non porta sempre lontano.
 

Cosa vogliono dire questi concetti? Che la principale preoccupazione di Giorgia Meloni, molto diversa da quella di Churchill, vero conservatore che sfidò Hitler, è di tenersi stretto il potere a spese di amici, nemici, italiani, stranieri, migranti, eccetera. Quella donna, come contenuti, non crede in nulla. O meglio, crede solo in se stessa.

Ambiguità come metodo

Qui si apre il capitolo dell’ambiguità come metodo. Che cos’è l’ambiguità? L’arte di non farsi capire in modo univoco.
 

Nel caso di Giorgia Meloni, rinvia a una forma mentis di tipo fascista, o, se si preferisce, di natura autoritaria. Più che a governare, aspira a comandare. E chi comanda impone obbedienza. Si guardi come tiene in pugno il partito ( prossime tappe in Italia ed Europa).
 

Per comandare il più a lungo possibile, l’ambiguità è di grande aiuto. La doppiezza fa guadagnare tempo. Certo, qui la differenza tra il dire le cose in modo sfumato e l’inganno è sottile. Alla lunga, l’ambiguità come metodo potrebbe tramutarsi in una debolezza, che non è sicuramente da grande statista.
 

Quando però  ci si trova, come Churchill, davanti a una Dunkerque, si deve decidere in fretta e furia. Altro che ambiguità…Pertanto, se un giorno Dunkerque sarà, quanti danni avrà provocato Giorgia Meloni fino al momento della verità?

Il doppio registro politico

In Giorgia Meloni c’è sempre uno scarto, ovviamente voluto, tra simbolo e azione. Vediamolo meglio. La sua strategia mostra un filo-atlantismo e filo-israelismo forti nella retorica (simbolo), ma calibrati nella pratica, anche sul dossier palestinese (azione).

Meloni si presenta come garante della fedeltà all’alleanza atlantica e come convinta sostenitrice di Israele. Tuttavia, il suo approccio mostra una netta differenza tra retorica e fatti. La premier ha visitato Israele il 21 ottobre 2023, subito dopo il Vertice per la Pace al Cairo. La visita, circoscritta a poche ore, includeva un incontro con il premier Netanyahu e gesti simbolici di solidarietà, senza impatti internazionali forti.

Fini, al contrario, nel novembre 2003, compì una visita ufficiale di tre giorni, con incontri significativi a Gerusalemme, Tel Aviv e Yad Vashem, pronunciando parole forti sul fascismo come “male assoluto”. La differenza non è nei tempi cronologici, ma nel peso simbolico e nella capacità di creare fratture o segnali chiari: Fini spingeva un cambiamento di rotta, Meloni calibra la percezione esterna senza alterare la base interna.

Inciso sul viaggio di Fini

Il viaggio di Fini fu simbolicamente e diplomaticamente rilevante. Suscitò malumori all’interno di Alleanza Nazionale e dei gruppi extraparlamentari, consolidando la rottura tra il passato neofascista e una nuova linea di responsabilità internazionale.
 

La frase pronunciata da Fini segnò uno spartiacque. Molti “colonnelli” e militanti ex-MSI non lo perdonarono, accusandolo di essersi piegato all’establishment e di aver “rinnegato” il passato. Nacquero battute feroci sulla kippah che indossò al memoriale, simbolo di “umiliazione” della tradizione neofascista.

Filo-israelismo e filo-atlantismo tattici

Il filo-israelismo di Meloni appare come strumento tattico. Serve a garantire credibilità internazionale e a consolidare legami con le destre globali (MAGA negli USA, Likud in Israele), senza rinnegare le radici identitarie del suo partito. L’Italia mantiene quindi una posizione prudente anche sul dossier palestinese: voti a favore della soluzione dei due Stati, ma nessun riconoscimento immediato.
 

In patria, Meloni evita confronti traumatici con il passato neofascista e i residui nostalgici, come emerso dalle indagini su antisemitismo e nostalgismo tra i giovani militanti di Fratelli d’Italia. In sintesi: nessuna dichiarazione sul "male assoluto".

Ambiguità come strategia di sopravvivenza politica

La strategia di Meloni è chiara: all’estero, l’Italia appare affidabile, filo-atlantica e filo-israeliana; all’interno, la premier non rompe con le sensibilità identitarie del partito, evitando fratture. Questo doppio registro, che si manifesta anche nella prudenza sulla Palestina, è il cuore del suo esercizio politico. Una maschera di affidabilità esterna convive con cautela interna mirata.
 

Ora la domanda: Giorgia Meloni crede in questa identità? Da brava carrierista, vi crederà fino a quando le farà comodo. 

L’elemento predominante è semplice da individuare: del fascismo apprezza il decisionismo, la forma mentis autoritaria, gli ordini secchi e il rumore dei tacchetti. Oltre all’odio sistematico verso la sinistra e la modernità culturale, universi che non capisce e non vuole capire. 

Giorgia Meloni difficilmente rappresenta un modello per una società aperta, moderna e liberale.

Una maschera perfetta, ma fragile

Pertanto, sul piano politico, l’apparente coerenza filo-atlantista e filo-israeliana nasconde una gestione calibrata della base interna. Sul dossier palestinese e sulle dinamiche internazionali mantiene margini di prudenza e opportunismo. Non è una conversione di convinzione, ma un esercizio di equilibrismo tra simboli, retorica e politica concreta.
 

Giorgia Meloni gioca con l’ambiguità come metodo politico: un equilibrismo che tiene tutti sospesi tra retorica e realtà, tra simboli e pratiche. La posta in gioco resta il consenso, ottenuto democraticamente per ora, dopo di che, come carrierista, potrebbe essere capace di tutto. Anche perché resta grande ammiratrice della forma mentis fascista.
 

Per ora, però, la maschera sembra perfetta. Ovviamente, il trucco, se osservato da vicino, risulta evidente. Ma bisogna saper guardare.

Carlo Gambescia

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