sabato 6 settembre 2025

Lo zar pacificatore che minaccia l'Europa

 


Da Vladivostok, Putin ha avvertito che le forze militari della Nato e dei cosiddetti Volenterosi, se mai dovessero entrare in Ucraina, sarebbero “una minaccia e un obiettivo legittimo”. Non è linguaggio diplomatico: è il lessico crudo della guerra.

Lo zar, come spesso i media chiamano Putin — e non senza motivo — si presenta però come pacificatore: “Se si raggiunge la pace, non c’è bisogno di truppe”. Tuttavia, qui la pace non è vista come un risultato condiviso, ma come un dono elargito dalla Russia. È la vecchia logica imperiale: prima si intimorisce, poi si concede clemenza.

Il coro è rinforzato da Dmitri Medvedev, che intima ai Volenterosi di “consultare Mosca” prima di dare garanzie a Kiev. Un linguaggio che non ammette pari dignità, ma solo subordinazione.

Putin ribadisce poi il “niet” all’ingresso dell’Ucraina nella Nato, il vero punto fermo della sua strategia. E invita Zelensky a Mosca, promettendo immunità alla delegazione. Ma, brutalmente parlando, chi può crederci? Zelensky recandosi a Mosca avrebbe motivo di temere per la sua vita: la lunga lista di oppositori avvelenati o “suicidati” dai servizi russi è lì a ricordarlo.

Qui emerge un punto più profondo: le dichiarazioni di Putin – e la benevolenza con cui Trump guarda a Mosca – appartengono a una stessa logica, quella della volontà di potenza. Una logica che non appartiene alla Von der Leyen o ad altri leader europei, più pacifisti che altro, con la possibile eccezione di Macron e forse di Starmer. La volontà di potenza, però, non si riduce alla normale dinamica di potere: si radica nella regolarità amico/nemico, che è di ordine metapolitico, e porta con sé non solo l’idea di sconfiggere un nemico, ma addirittura di distruggerlo in quanto nemico assoluto.

Ci sia concesso un inciso su Trump: tutto questo non avviene nel vuoto. La forza russa è il rovescio della debolezza europea, ma anche della benevolenza di Trump, che con Putin adotta un tono indulgente, quasi complice. Se Roosevelt avesse mostrato la stessa indulgenza verso Hitler o Hirohito tra il 1939 e il 1941, oggi racconteremmo un’altra storia. A dire il vero, anche Roosevelt fu trascinato in guerra quasi per forza. È sorprendente come la storia sembri sempre ripetersi…

Per questo le parole di Vladivostok vanno prese sul serio. Non si tratta di minacce di circostanza, ma dell’ennesima manifestazione di una logica distruttiva che vede nell’altro non un nemico relativo, un avversario (fisiologia metapolitica) con cui negoziare, bensì un nemico assoluto da annientare (patologia metapolitica). In questo senso, la debolezza europea e la benevolenza americana non sono semplici errori politici: sono il terreno di coltura che permette alla volontà di potenza di avanzare senza ostacoli.

Però qui la domanda è: può l’Europa, divisa, timorosa, affrontare il rischio di una guerra? Come condurla non potendo contare, non solo su forze militari poderose e su una pubblica opinione compatta. La Russia ha le sue quinte colonne europee tra sovranisti, fascisti, populisti rossi e neri. La stessa gente comune non vuole sentire parlare di guerre.

Sì, Vladivostok va preso sul serio. L’Europa, però, non è pronta. E la storia non perdona chi esita. Si dirà che la guerra sarebbe un salto nel buio. Ma è meglio cadere in piedi, pochi eroi con le armi in pugno, o inginocchiarsi implorando pietà? La storia giudica, ma ciò che distingue davvero gli uomini è l’etica del loro coraggio.

Quando ne va, ancora prima dell’ esistenza, dei principi che hanno fatto grande una civiltà: i principi liberali.

Un tempo si chiamava la buona battaglia.

Carlo Gambescia


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