lunedì 15 settembre 2025

Kirk, Meloni, Odifreddi. Non tutti i morti sono uguali

 


In Italia si è scatenata la polemica. Odifreddi ha sostenuto che la morte violenta di Martin Luther King e quella di Charlie Kirk non hanno lo stesso valore. Poi ha fatto una quasi marcia indietro. Atteniamoci alla sua prima esternazione. Alla quale Giorgia Meloni, indignata, ha risposto che i morti, soprattutto se assassinati per ragioni politiche, sono tutti uguali.

Alla base della sua tesi – così dice – c’è il rifiuto della violenza, che dovrebbe accomunare tutti i partiti, da destra a sinistra. Eppure proviene da un’ideologia che ha santificato la violenza. È difficile, per dirla alla buona, nascere leoni e morire pecore. Quindi Giorgia Meloni mente. Del resto, quando qualche mese fa furono assassinati, sempre negli Stati Uniti, la deputata democratica del Minnesota Melissa Hortman e il marito Mark, colpiti da un uomo, “un purificatore” dei costumi politici, che si spacciava per agente di polizia, da parte sua non vi fu alcuna reazione pubblica.

C’è dell’altro.

Meloni recita il vecchio rosario dell’eguaglianza davanti alla morte, soprattutto quando causata da un atto violento. A parte che, sempre con riferimento alla sua provenienza ideologica, Mussolini fu un guerrafondaio, l’argomento è fragile. Se i morti fossero davvero tutti uguali, non avremmo memoria collettiva, non ci sarebbero eroi, martiri, santi. Ci sarebbe solo un gigantesco necrologio senza differenze. È una posizione retorica, buona per la conferenza stampa o il comizio, ma storicamente inconsistente.

Odifreddi, al contrario, distingue: Martin Luther King e Charlie Kirk non giocano nella stessa serie. Il primo lottava per i diritti civili universali, il secondo difendeva un’idea escludente e integralista. Da un punto di vista storico e morale, è difficile dargli torto. Tuttavia, anche Odifreddi rischia di trasformare la valutazione storica in una graduatoria morale da professore di matematica: uno vale dieci, l’altro zero. La vita reale è più complessa.

E poi c’è la posizione dello stesso Kirk, che — non dimentichiamolo — divideva esplicitamente i morti. Per lui, da bravo integralista, chi muore nella fede cristiana va in “serie A”, chi muore senza fede è destinato a una serie B o C, se non peggio. Dunque, paradossalmente, Kirk stesso avrebbe smentito Meloni: non tutti i morti sono uguali. È la fede che separa i salvati dai dannati.

Va infatti  ricordato che Giorgia Meloni si professa cristiana, ma non vi sono testimonianze pubbliche di una sua pratica religiosa regolare. La sua è soprattutto un’identità dichiarata e giocata in chiave politica e culturale, più che una fede vissuta come esperienza privata di rito e sacramento.

E qui la contraddizione esplode. Meloni difende Kirk come martire, ma Kirk non avrebbe mai considerato Meloni “uguale a tutti gli altri”: priva di una testimonianza di pratica religiosa, con una figlia avuta fuori dal matrimonio — che, secondo la Bibbia che Kirk conosceva a memoria, rientrerebbe nel concubinaggio — dal punto di vista dell’integralismo cristiano Giorgia Meloni vivrebbe nel peccato, destinata all’Inferno.

Resta un punto decisivo. Criticare Kirk, definirlo un reazionario religioso, non significa giustificare l’omicidio. Ma questo non ci obbliga a santificare le vittime. Non ogni morto politico diventa automaticamente Martin Luther King.

Ecco la differenza. King testimoniava una visione inclusiva e universale di libertà per tutti. Kirk testimoniava una visione esclusiva e settaria, di salvezza solo per alcuni. Metterli sullo stesso piano significa offendere la ragione storica prima ancora che la morale.
 

In sintesi: Meloni predica una finta uguaglianza dei morti, Odifreddi rischia la matematica delle anime, Kirk divide il mondo in salvati e dannati.

Forse l’unica vera lezione è che la morte non livella proprio niente: rivela invece, in tutta la loro durezza, le differenze delle vite vissute e delle idee professate.

Poi c’è un’ultima cosa: gli appelli, molto generici, a moderare i toni, da parte di destra e sinistra. Ora, i toni del discorso pubblico dipendono dall’accettazione dei valori. Il liberalismo implica la condivisione dei valori liberali, tra i quali l’individualismo. Un integralista cristiano è fuori dall’universo liberale perché predica l’integrazione dell’individuo in una comunità religiosa che ne distrugge l’individualità. Il che vale per ogni forma di integralismo religioso, come per quelle ideologie totalitarie che rispondono al nome di fascismo, comunismo, nazismo.

Pertanto un integralista cristiano è automaticamente fuori dal discorso pubblico liberale. Perché, e non si tratta solo di toni, i contenuti del suo discorso pubblico sono antiliberali. E per farsi sentire, non può che alzare la voce: di qui il tono incendiario. L’integralismo è un processo a spirale, che per via mimetica si trasmette a tutti. Di qui il tono sempre più acceso e il passaggio alle vie di fatto.

Perciò Charlie Kirk è in qualche modo responsabile di quel che è successo, perché portatore di un’ideologia potenzialmente totalitaria che non può non scatenare, per imitazione, reazioni altrettanto distruttive. Pertanto, il problema non è abbassare i toni — strada illusoria — ma escludere dal discorso pubblico liberale, che è sempre dalla parte dell’individuo, coloro che difendono ideologie anti-individualiste.

La religione è fatto privato, non pubblico. Ed è lì che deve restare, se non vogliamo che la storia torni a farsi tragedia. Il ruolo della religione – non si dimentichi mai – non è quello di dare voti, ma di favorire l’esame di coscienza individuale e, di riflesso, lo sviluppo di un’autocoscienza capace di tenere a bada i lati meno piacevoli dell’individualismo. Nessuna ideologia è perfetta. Però, tra il richiamo della foresta della comunità e l’esercizio di una ragione individuale, difficile ma possibile, è sempre preferibile la seconda.

Carlo Gambescia

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