Cattolici di sinistra si resta a vita.
Il presidente Mattarella è una brava persona. Resta apprezzabile il
suo impegno europeista e anti-autocratico (si potrebbe dire anche
antifascista, ma sembra che l’antifascismo sia démodé), però quando si
parla di economia, dispiace dirlo, ragiona come Don Milani.
Un esempio: il videomessaggio al Forum Ambrosetti.
Quando Mattarella paragona le Big Tech alle Compagnie delle Indie, non sta facendo solo un esercizio di storia economica: sta lanciando un monito contro quello che definisce lo straripante peso delle corporazioni globali. Leggiamo.
“Per regole che riconducano al bene comune lo straripante peso delle corporazioni globali – quasi nuove Compagnie delle Indie – che si arrogano l’assunzione di poteri che si pretende che Stati e Organizzazioni internazionali non abbiano a esercitare. L’incrocio tra le ambizioni di quelle, e l’impulso di dominio, di impronta neo-imperialista, che si manifesta da parte dei governi di alcuni Paesi, rischia di essere letale per il futuro dell’umanità” (*).
I democristiani di sinistra, come Mattarella, continuano a vedere nelle Compagnie delle Indie un monolite di sfruttamento e colonialismo, pronto a ricordarci quanto il potere economico possa essere pericoloso.
In realtà questa visione è riduttiva e per dirla con franchezza storicamente miope.
Pillole di storia. Le Compagnie delle Indie segnarono l’avvio della modernità globale: i portoghesi aprirono la rotta delle spezie; gli olandesi con la Vereenigde Oostindische Compagnie (Compagnia Olandese delle Indie Orientali) inventarono il capitalismo azionario; i francesi provarono ma rimasero secondari; i britannici con la East India Company, fondata nel 1600 con licenza reale, divennero tra il XVIII e XIX secolo la principale potenza commerciale e politica in India, con proprie milizie, capacità di trattati e controllo fiscale, investendo anche in infrastrutture e reti moderne fino al passaggio del potere alla Corona britannica nel 1858; il risultato fu insieme appropriazione (indebita, debita, chissà…) e modernizzazione, una miscela che scosse beneficamente, sul piano della ricaduta, Asia e mondo intero.
A differenza delle Compagnie delle Indie, che combinavano potere economico e politico con milizie proprie e controllo territoriale, le Big Tech esercitano solo influenza economica e tecnologica senza governare popolazioni o territori. Le prime trasformarono infrastrutture, burocrazia e società; le seconde cambiano mercati digitali, informazione e stili di vita. Il paragone funziona come immagine evocativa, alla Said, padre dei cosiddetti studi post-coloniali, ma le differenze sostanziali restano enormi.
Inciso. Gli studi postcoloniali, che vengono “dopo”, quindi opponendosi all’epoca coloniale, da Edward Said in poi, hanno enfatizzato nel colonialismo e nelle varie compagnie commerciali solo la dimensione di dominio culturale e subordinazione, riducendo le dinamiche storiche a narrazioni di sfruttamento. Per contro, studi più concreti e fondati sull’analisi economica e istituzionale, come quelli di David S. Landes e altri, mostrano come queste compagnie abbiano favorito la modernizzazione, lo sviluppo imprenditoriale e infrastrutturale, trasformando società e territori senza cancellarne la complessità. In particolare, essi evidenziano come le Compagnie delle Indie non fossero solo strumenti di dominio, ma agenti concreti di sviluppo economico e culturale, confermando che la loro eredità è complessa e non riducibile a mero colonialismo (**).
Come le antiche Compagnie delle Indie, le Big Tech non sono di per sé demoniache: sono potenze capaci di trasformare il mondo, con benefici e pericoli inscindibili, opportunità e rischi intrecciati.
Le Big Tech non sono associazioni di carità: il rischio è insito nel capitalismo, così come lo era nelle antiche compagnie. Il loro straripamento culturale ed economico è il prezzo dell’essere “primi della classe”. Se allora, come oggi Mattarella, si fosse ragionato solo in termini di controllo e prevenzione del potere economico, saremmo rimasti al palo: fu proprio questa dinamica spontanea, privata, all’insegna del laissez-faire, a spingere la modernità e la rivoluzione industriale.
Criticare le Compagnie delle Indie senza sfumature significa fraintendere la rivoluzione commerciale e industriale che ha segnato la modernità. Vuol dire adottare una lettura postcoloniale semplificata, di derivazione marxiana, che vede in esse solo sfruttamento economico, equivale a ignorare la profonda trasformazione culturale che investì l’Asia.
La celebre tesi marxiana sulla distruzione britannica del telaio a mano e della ruota da filare—secondo cui la Compagnia britannica avrebbe finanziato la rivoluzione industriale inglese—non trova conferme solide. È certo, invece, che tra il XIX secolo e l’Indipendenza, i britannici investirono in infrastrutture cruciali, come le ferrovie, generando benefici concreti per l’India.
Il colonialismo europeo ebbe pagine sia oscure sia illuminate; demonizzarlo in blocco significa ignorarne la complessità e il ruolo nella modernizzazione.
Carlo Gambescia
(*)Qui: https://www.quirinale.it/elementi/138365 .
(**) Si veda E. Said, Orientalismo. Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, Feltrinelli, 1991. Said analizza le componenti culturali del colonialismo e dell’imperialismo occidentale, riducendo i fenomeni a dominio e subordinazione culturale. Sul versante opposto, si veda almeno l’eccellente raccolta curata da D. S. Landes, J. Mokyr e W. Baumol, The Invention of Enterprise: Entrepreneurship from Ancient Mesopotamia to Modern Times, Princeton University Press, 2010; vi si mostra come le compagnie commerciali abbiano effettivamente promosso modernizzazione, fenomeno fin troppo complicato nel suo svolgimento storico, non riducibile a puro sfruttamento.

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