Si può, pur dicendo giustamente tutto il male politico possibile di Netanyahu, paragonare alla Shoah l’occupazione israeliana della striscia di Gaza? Chiunque conosca la storia della distruzione degli ebrei in Europa, per parafrasare il titolo di uno dei più importanti studi in argomento, sa che non è così. Si può, perciò, essere dalla parte degli antisemiti?
Quando si pensa all’Ucraina, si possono mettere sullo stesso piano aggredito, Kiev, e aggressore, Mosca?
Si può difendere, se non addirittura parteggiare, per un Presidente americano, Donald Trump, che viola, con l’intenzione di violarla, perché aspira alla dittatura, la Costituzione scritta liberale più antica del mondo?
Si può sostenere un governo italiano intollerante, razzista, che non parla mai di fascismo, ma che lo pratica di fatto colpendo le libertà civili, politiche, lo stato di diritto, la separazione dei poteri? E che, in certi ambienti, trova anche nostalgici del Mussolini “statista”?
Questi sono i quattro quesiti sui quali oggi crediamo debba interrogarsi ogni intellettuale che vuole definirsi liberale.
Sembra però la cosa più difficile del mondo. Perché? Tra gli intellettuali (chiunque lavori con le idee: studiosi, giornalisti, scrittori) sembrano ormai chiaramente delinearsi due tendenze generali.
La prima è quella della neutralità assiologica, cioè l’atteggiamento di chi osserva senza giudicare i valori, che esistenzialmente consiste nello svolgere il proprio lavoro senza occuparsi di politica — cosa nei fatti impossibile — e che favorisce un clima di complicità oggettiva con i detentori del potere.
La seconda è quella dell’impegno politico, a destra o a sinistra, oppure per andare oltre queste due categorie storiche (almeno dalla Rivoluzione francese).
Ne consegue un equilibrio tensionale tra neutralità assiologica e impegno politico, preludio al distruttivo conflitto politico-culturale.
Guerra politico-culturale. Parola misteriosa. Comunque magica. Perché si tende a confonderla con il normale confronto delle opinioni politiche. E invece non è così. E per quale ragione? Perché l’Occidente — cioè Stati Uniti, Europa e altri stati in qualche modo legati alla tradizione occidentale, come Israele, Australia, Canada — è profondamente diviso. E su che cosa? Sui propri fondamenti: democrazia liberale, libero mercato, stato di diritto. Vale a dire su ciò che ha inventato di sana pianta e che ha fatto la sua fortuna.
L’Occidente non è soltanto un fatto geopolitico: è soprattutto un’idea morale. Pertanto il conflitto, come detto, politico-culturale va ben oltre il confronto delle opinioni. Perché il confronto può esserci solo se si condividono i valori di fondo. Che prima che politici sono valori morali.
Per capirsi: un valore morale rinvia al “si deve”, non al semplice “si può”: comanda un obbligo, non una facoltà. Per Weber, è il registro dell’etica della convinzione, che impone principi assoluti; mentre l’etica della responsabilità valuta invece ciò che si può fare, tenendo conto delle conseguenze.
Attenzione: considerare le conseguenze non significa annacquare l’etica dei principi fino a farla scomparire. Il realismo liberale è realista perché valuta le conseguenze delle azioni, ma è anche liberale perché valuta l’impatto di tali conseguenze sulla tutela dei principi liberali.
La nostra affermazione può sembrare riduttiva. Ma mettere in discussione, come oggi avviene, democrazia liberale, libero mercato, stato di diritto significa voler fuoriuscire dall’Occidente, rifiutando o addirittura azzerando i valori che lo hanno fatto grande.
A questo si aggiunga la “recidiva” del nazionalismo, che, sganciato dai principi liberali, diventa una corrosione lenta e profonda: logora dall’interno le istituzioni, indebolisce le libertà e finisce col travolgere, non per la prima volta, l’idea stessa di Occidente.
Ciò che è ancora più triste e pericoloso è l’uso che viene fatto della parola Occidente, e implicitamente dei suoi valori.
Come ci si può dire difensori dell’Occidente quando si strizza l’occhio a Putin? Quando si dipinge la striscia di Gaza come il ghetto di Varsavia? Quando si distrugge l’equilibrio dei poteri? Quando si rimpiange Mussolini?
Su queste cose oggi dovrebbero interrogarsi gli intellettuali. Invece di far finta di nulla oppure di contribuire, in un modo o nell’altro, alla distruzione dell’Occidente.
O no?
Carlo Gambescia
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