Giorgia Meloni ha scelto il palcoscenico dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per un discorso che, a ben vedere, più che un intervento da leader globale, è sembrato un comizio domestico travestito da alta diplomazia (*).
Bersaglio principale: l’ONU, eternamente incapace, così fa intuire, di garantire la pace. Non un’esplosione plateale alla Trump, ma un siluro sottile e avvolgente: dire senza dire, alludere senza affermare, la firma della furba ambiguità che caratterizza il suo stile politico (**) .
In realtà una forma di vendetta verso la grande lezione impartita al nazifascismo nel 1945. È un refrain tipico della retorica sovranista: delegittimare le istituzioni multilaterali per legittimare il ritorno al primato della nazione. Non è un caso che lo stesso argomento fosse già stato agitato negli anni Trenta da Mussolini, che bollava la Società delle Nazioni come impotente e intrappolata tra politici parolai. Poi, come sappiamo, passò ai fatti…
Meloni ha condannato l’aggressione russa all’Ucraina, definendola una violazione flagrante del diritto internazionale. Ma la fermezza con Mosca si accompagna a un silenzio imbarazzato quando il discorso tocca gli alleati “scomodi”. L’ Israele di Netanyahu viene solo sfiorato, mai realmente chiamato a rispondere - soprattutto la destra ultranazionalista israeliana - delle vittime civili a Gaza. Così la difesa del diritto appare parziale, piegata agli equilibri geopolitici, al calcolo di convenienza, alle distorte e brigantesche empatie nazionaliste.
È una logica che non è nuova. Anche il fascismo proclamava di difendere la pace e l’ordine, ma solo contro i nemici esterni al proprio disegno di potenza: Londra e Parigi venivano dipinte come “plutocrazie ipocrite”, mentre l’Asse giustificava ogni aggressione come “reazione” o “legittima necessità”. Oggi Meloni non adotta quell’enfasi guerresca, ma il meccanismo resta simile: condanna netta dei nemici, indulgenza verso gli amici. In entrambi i casi, il diritto internazionale si riduce a un’arma retorica, non a un principio universale. A Kant si preferisce Schmitt (anche se probabilmente Giorgia Meloni non ha letto una riga di nessuno dei due...).
Altro bersaglio polemico del discorso è stata la globalizzazione, definita fallimentare e colpevole di avere impoverito le classi medie. Anche qui, nulla di nuovo: la retorica del declino e dell’assedio esterno è un tratto ricorrente dei nazionalismi. Mussolini parlava di “plutocrazie mondiali” che sfruttavano i popoli; Meloni preferisce prendersela con i “piani verdi” e le corrotte élite occidentali accusate di condurre l’Europa alla deindustrializzazione. Cambiano i termini, non la logica: la colpa viene sempre da fuori, la soluzione è sempre la chiusura dentro i confini nazionali
Non poteva mancare il passaggio sul controllo delle frontiere. La Premier ha chiesto di rivedere le convenzioni internazionali su asilo e migrazioni, giudicate obsolete. Anche qui, la diagnosi è costruita per parlare al pubblico di casa: migranti e trafficanti come minaccia alla sovranità. È la riedizione aggiornata del mito dell’“assedio esterno” caro al fascismo, che vedeva nei movimenti di popoli e nei “nemici interni” una minaccia alla purezza e alla forza della nazione. Oggi si parla di teoria della sostituzione, se non è zuppa è pan bagnato.
Il discorso di Giorgia Meloni all’ONU non è stato solo vago o contraddittorio. È stato soprattutto rivelatore: dietro la patina della modernità comunicativa – i social, le immagini, gli slogan – si intravede una feroce grammatica antica. L’elogio della sovranità assoluta, la denuncia delle istituzioni internazionali come inconcludenti, la critica alla globalizzazione come decadenza, l’ossessione per i confini e la forza: tutti motivi che hanno avuto nel fascismo il loro laboratorio originario. Insomma, tornano gli antichi fantasmi.
Non si tratta, ovviamente, di dire che oggi l’Italia voglia rifare l’Impero. Ma di riconoscere che un certo lessico – quello del declino, della paura, della nazione come unico orizzonte – non è mai innocente. Ogni volta che riaffiora, ridisegna i limiti del possibile: restringe lo spazio dei diritti, svaluta il dialogo internazionale, normalizza l’idea che la forza conti più delle regole.
Ecco perché, più che un discorso all’ONU, quello di Meloni somiglia a un ritorno di fiamma – fiamma, quando si dice il caso – del Novecento autoritario.
Un secolo che fino a qualche decennio fa si riteneva chiuso, ma che, a quanto pare, è tornato a bussare alla porta del presente.
Carlo Gambescia
(*) Qui il discorso integrale: https://www.governo.it/it/articolo/lintervento-del-presidente-meloni-all80-assemblea-generale-delle-nazioni-unite/29842 .



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