Giorgia Meloni, nel suo repertorio di frasi ad effetto, ha definito Giorgio Armani “un simbolo dell’Italia migliore”.
Un’affermazione suggestiva, ma discutibile. Perché Armani non è semplicemente un fiore all’occhiello nazionale. È molto di più – ed è, soprattutto, altro: un simbolo del “migliore” capitalismo internazionale, un caso da manuale di quel principio antico quanto cosmopolita dell’ubi bene, ibi patria.
Armani non ha costruito la sua fortuna sventolando tricolori. È partito da zero, in un paese arretrato, o comunque ancora provinciale, come l’Italia degli anni Sessanta e Settanta, e con intelligenza, discrezione e senso pratico ha edificato un impero globale del lusso. Una multinazionale che ha saputo parlare tanto a Milano quanto a New York o a Shanghai. Altro che campione nazionale: Armani è stato uno dei primi a capire che il futuro del made in Italy non era l’autarchia, ma la conquista dei mercati mondiali.
E qui si capisce perché Armani può essere definito una specie di “Schumpeter in giacca morbida”. Il grande economista austriaco (nella foto) vedeva nel capitalismo la forza della distruzione creatrice: un processo incessante di innovazione che spazza via il vecchio e apre spazio al nuovo.
Armani ha fatto esattamente questo. Verticalmente, con prodotti che hanno rivoluzionato l’eleganza – le sue giacche morbide hanno cambiato il modo di vestire uomini e donne. Orizzontalmente, con l’espansione geografica: fu tra i primi italiani a penetrare negli Stati Uniti e poi in Cina, anticipando i tempi e aprendo la strada ad altri.
E tutto questo senza urlare, senza farsi trascinare nelle beghe sterili della politica italiana. Uomo sobrio – come i suoi tagli, essenziali ed eleganti – Armani ha dimostrato che la vera forza di un produttore sta nel creare valore, non nel cercare applausi di partito.
Qui torna utile la lezione di Saint-Simon, il pensatore francese che con Comte ha gettato le basi della sociologia moderna. Secondo lui, il motore del progresso non sono i politici né i funzionari, ma i produttori. Immaginava addirittura l’effetto di una loro improvvisa scomparsa: molto più devastante di quella della classe politica.
Armani, in questa prospettiva, non è un eroe nazionale, targato Fratelli d’Italia, ma un produttore nel senso pieno del termine. Un fratello del mondo, se proprio si vuole usare questa terminologia destrorsa.
Ecco perché ridurlo a “bandiera italiana” è non solo ingeneroso, ma fuorviante. Giorgio Armani non appartiene a un Paese: appartiene al mondo.
Qualcuno potrà giudicare eccessiva questa sottolineatura “cosmopolita”. Ma, a ben vedere, lo è molto meno della retorica nazionalista che oggi domina la scena politica italiana.
Il successo di Giorgio Armani non è il trionfo di un nazionalismo estetico o estetizzante alla D'Annunzio, ma la conferma che il capitalismo creativo - quando incontra intelligenza, rigore e visione -non ha patria, se non quella del mercato globale.
Carlo Gambescia



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