lunedì 29 settembre 2025

Quando il silenzio vale più di mille parole: Venezi alla Fenice e il declino dell’antifascismo

 


La nomina di Beatrice Venezi a direttrice musicale della Fenice di Venezia ha scatenato una rivolta di orchestrali, sindacati e abbonati. Tipo il famoso film di Fellini.

I comunicati si sprecano: “curriculum insufficiente”, “mancanza di trasparenza nella scelta”, “nomina calata dall’alto”. Tutto vero, certo. Ma manca il punto fondamentale, quello che nessuno osa dire: Beatrice Venezi non si è mai dichiarata antifascista.

In Italia, oggi, ci si vergogna a esserlo. Ecco la vera tragedia collettiva.

Un passo alla volta. Venezi ha sempre rivendicato la sua identità politica così:

“Non sono fascista, sono di destra, conservatrice e credo in Dio.” , dichiarazione alla “Stampa”. E ancora, in occasione di una polemica con Monica Cirinnà, la Venezi ha difeso senza imbarazzo il motto che più di ogni altro evoca il Ventennio: “Dio, patria e famiglia sono i miei valori.” (*).

Ora, è vero: non ha mai detto “sono fascista”. Ma è altrettanto vero che non ha mai detto il contrario, cioè “sono antifascista”. Non ha mai preso le distanze dal regime che ha trascinato l’Italia nella guerra, né da quella stagione in cui essere liberali significava essere perseguitati. In Italia, dove la democrazia si fonda sull’antifascismo, il silenzio vale più di mille dichiarazioni. Parliamo di un vero e proprio patto costituzionale. Un prius, per parlare difficile. La causa primaria della nostra liberal-democrazia. Se viene meno quella cade questa.

Inoltre, cosa non secondaria dal punto di vista probatorio (pardon per il piglio avvocatesco), Venezi proviene da una famiglia con chiari legami neofascisti: suo padre, Gabriele Venezi, è stato dirigente nazionale di Forza Nuova. Ed è noto che le posizioni politiche dei genitori non sono solo un dato di biografia, ma spesso un fattore decisivo nella formazione dei figli.

Studi di scienza politica mostrano che la partecipazione politica, l’orientamento ideologico e l’affiliazione partitica si trasmettono intergenerazionalmente in misura significativa (**). Non si tratta di determinismo: molti figli divergono, ma la probabilità che condividano il retaggio politico dei genitori è elevata quando ci sono “famiglia politicizzata”, tradizioni, dialogo interno. Questo rende l’ambiguità di Venezi — che non condanna né il fascismo né si definisce antifascista — non solo un fatto personale, ma simbolico di una più larga crisi civica e civile.


 

I lavoratori della Fenice l’hanno contestata. Gli abbonati hanno disdetto i posti. Tutti hanno trovato mille buoni motivi: l’età, il curriculum, il fatto che non abbia mai diretto un titolo d’opera in cartellone. Ma nessuno ha sottolineato il punto fondamentale: un’istituzione culturale di prestigio non può essere guidata da chi non ha mai preso posizione antifascista.

Questo silenzio non è casuale. È la fotografia del nostro Paese: l’Italia dove dichiararsi antifascisti è diventato imbarazzante, scomodo, “divisivo”. Si sorvola sul vero nodo, rifugiandosi in scuse banali: è giovane, poco nota, persino donna. Tutti argomenti che i sostenitori della Venezi ribaltano facilmente, spostando il dibattito su un terreno neutro e uscendo così con la coscienza a posto. E magari facendo pure bella figura.

Vale la pena ricordarlo: l’Italia il fascismo non l’ha subito, lo ha inventato. E la maggioranza degli italiani si è scoperta antifascista solo quando non voleva più andare in guerra. Se non fosse stato per la disfatta militare, il regime sarebbe durato chissà quanto. Mussolini sarebbe morto, nel suo letto, con il pannolone.

 


Proprio per questo l’antifascismo non è un optional: è il requisito minimo della convivenza civile, soprattutto per chi ricopre ruoli pubblici e culturali. Non può esserci “memoria condivisa” tra fascisti e liberali, tra chi sogna società chiuse e chi difende società aperte.
 
Molti – soprattutto a destra – sostengono che l’antifascismo debba essere inglobato nella categoria più ampia dell’antitotalitarismo. È una formula comoda: equipara il fascismo ad altri regimi, ne diluisce la specificità storica e culturale. Ma il punto è un altro: l’antifascismo è il primo passo di un percorso antitotalitario.

Proprio perché è il primo passo, è irrinunciabile. Non si può difendere la democrazia se si sorvola sull’unico totalitarismo che l’Italia abbia generato e che ancora oggi ispira nostalgie e ambiguità. Antifascismo significa: mai più dittature, mai più culto del capo, mai più società chiuse. È la base da cui ogni altro antitotalitarismo deve partire.

 


Beatrice Venezi non è un caso isolato, ma un sintomo. La sua nomina al Teatro La Fenice è stata decisa dall’alto, all’interno di una Fondazione i cui molti membri hanno legami con la destra: il Ministro Giuli, che vi esercita un’influenza significativa, e il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, esponente di Fratelli d’Italia. Giuli stesso è stato nominato da Giorgia Meloni, la quale non ha mai chiarito esplicitamente la propria posizione antifascista, rendendola di fatto invisibile o diluita. Così oggi, nella retorica dominante, si può parlare di Dio, patria e famiglia senza arrossire, ma guai a pronunciare la parola “antifascista”: non fa curriculum, non porta voti, non suona bene nei salotti televisivi.

Ironia della sorte: in un Paese che ha fatto della Resistenza il proprio mito fondativo, nel 2025 essere antifascisti sembra una macchia di provincialismo.

Non è vero che dobbiamo dimenticare. L’Italia ha pagato il fascismo con le leggi razziali, con la guerra, con la repressione di chiunque pensasse diversamente. Ha pagato l’antifascismo con sangue, nelle prigioni del regime e poi nelle montagne della Resistenza.

Chi desideri documentarsi si legga la tuttora bellissima biografia di Carlo Rosselli, trucidato in Francia nel 1937 con il fratello  Nello, su ordine come sembra di Mussolini. Opera scritta da Aldo Garosci, eccellente storico liberale. E vi troverà un autentico spaccato di cosa fu la repressione fascista. Un livre de chevet. Detto altrimenti, da tenere sul comodino (***).

 Per questo oggi non basta dire “non sono fascista”. In una democrazia liberale, bisogna dirsi antifascisti. È la linea di confine, netta e irriducibile, tra società aperta e società chiusa.

L’Italia che nomina Beatrice Venezi alla Fenice senza chiedere questa chiarezza, e che protesta senza avere il coraggio di dirlo, è un’Italia nostalgica, smemorata, e conformista. Un Paese che ha dimenticato che fascismo e liberalismo sono opposti inconciliabili.

E che senza antifascismo non resta nulla da difendere.

Carlo Gambescia

 

(*) Le citazioni, così come altre facilmente reperibili online, sono ampiamente disponibili cliccando sui rispettivi nomi.

(**) Come ad esempio il recente studio di M.M. Van Ditmars, Political socialization, political gender gaps and the intergenerational transmission of left-right ideology, "European Journal of Political Research" (2022). Qui: https://ejpr.onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/1475-6765.12517?utm_source=chatgpt.com .

(***) Aldo Garosci, Vita di Carlo Rosselli, Vallecchi, Firenze 1973, 2 voll.

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