domenica 28 settembre 2025

Non solo flotilla. Kiev, Gaza e le ambiguità dell’Occidente sulla difesa dell’individuo

 


Nessuna flotilla per Kiev. E questo già dice molto. Nonostante le minacce russe, che toccano direttamente l’Europa, l’attenzione politica e mediatica si è ormai da tempo spostata su Gaza. Perché? Perché in Medio Oriente le ferite sono più vicine, più visibili e, soprattutto, più cariche di simboli. Due pesi, due misure, appunto.

La guerra in Ucraina resta “importante ma lontana”. All’inizio c’è stata una mobilitazione straordinaria: armi, sanzioni, fondi. Poi, lentamente, la stanchezza. Il conflitto si è trasformato in un logoramento senza fine, con il rischio di escalation nucleare. Troppo costoso, troppo rischioso: e così l’attenzione dell’opinione pubblica cala, come se la guerra fosse diventata parte del paesaggio.

Gaza invece è “vicina e infiammabile”. Qui non si tratta solo di geopolitica: c’entrano la religione, i flussi migratori, il petrolio, e soprattutto l’alleanza indissolubile tra Israele e Stati Uniti. Ogni bomba, ogni immagine di distruzione ha un impatto immediato sulle nostre società. Israele non minaccia di invadere l’Europa: la sua forza è indiretta, passa dai legami politici, economici e culturali che ci legano a Washington.

E la sinistra? La sua posizione è altrettanto ambigua. In Ucraina una parte sostiene Kiev in nome dell’autodeterminazione, un’altra denuncia l’escalation militare e sospetta che l’Occidente usi il paese come pedina anti-russa. In Palestina la sinistra mantiene la storica simpatia per i palestinesi, ma con mille cautele: il rischio di apparire antisemiti, l’obbligo diplomatico di non rompere con Israele, l’eco delle tragedie passate. Così, tra richiami al “cessate il fuoco” e appelli alla “pace giusta”, il discorso resta vago, esitante. Una contraddizione che riflette l’incapacità di scegliere quale bandiera sollevare senza bruciarsi le mani

Sul fronte opposto, la destra sembra meno divisa. Nel caso ucraino sostiene l’invio di armi e la linea dura contro Mosca, spesso con argomenti di ordine e sicurezza. In Medio Oriente, invece, prevale una solidarietà senza riserve verso Israele, letta come baluardo contro l’islamismo e il terrorismo. Questa compattezza, però, è solo relativa: nasconde tensioni latenti tra sovranisti filo-russi e atlantisti filo-americani. Attenzione non classici, quindi liberali ma trumpiani. Ma all’esterno l’immagine è quella di un fronte compatto, capace di parlare con una voce sola,  e perciò più incisiva.

Tutto questo rivela un fatto fondamentale: la fragilità della difesa dei valori liberali. Se davvero l’individuo, con i suoi diritti inalienabili, viene prima della società, allora la sua tutela dovrebbe essere assoluta. Niente bombe sulla testa, in Ucraina come in Palestina. E invece non è così: i diritti vengono invocati a geometria variabile, a seconda delle convenienze geopolitiche, degli interessi economici e delle alleanze strategiche. Insomma un aperitivo (anche analcolico e futuribile, pensiamo al palestinese), senza bombe che piovono  sulla testa, no?

Qui emerge il nodo: non sono i diritti in sé a essere “astratti”, ma gli uomini che li manipolano, piegandoli alle proprie priorità: il fascista privilegerà lo Stato sull’individuo; il comunista la meta finale della storia, sacrificando il presente; il fondamentalista religioso la legge di Dio, che trascende ogni libertà terrena; L’ecologista il bene del pianeta, che può richiedere restrizioni alla libertà dei singoli. E giù bombe, materiali e immateriali.

E il liberale? In teoria dovrebbe mettere l’individuo al centro, senza deroghe. Ma in pratica anche i liberali, quando si confrontano con la realpolitik, finiscono per bilanciare, derogare, chiudere un occhio. Così i diritti diventano strumento retorico, usati per difendere Kiev e ignorati per Gaza, o viceversa.

Il doppio standard che vediamo nella gestione delle due guerre non è dunque un semplice problema di comunicazione o di strategia diplomatica: è un problema strutturale della modernità politica. Perché i diritti, nati come assoluti, sono finiti in una specie di terra di nessuno dove prevale di volta in volta chi grida più forte o chi ha più potere. Forza delle cose? Natura pericolosa dell’uomo? Riflesso egoista (o altruista)? Ci si interroga da cinquemila anni.

Sembrava che la modernità avesse messo a posto le cose. Però non tutti sono d’accordo. Il liberalismo ad alcuni non piace, ad altri non convince, e così via in cerca di un regime politico perfetto: la famosa isola che non c’è. Senza capire che rileggendo qualche pagina di Guizot, Tocqueville, Cavour,  De Gasperi, Churchill una via d'uscita si troverebbe. E non certo in quelle di  Marx, Lenin, Mussolini, Hitler e di qualche teorico mezzo scemo dell'ecologia profonda... 

In questo quadro si inserisce la nuova flotilla, che cerca la sua isola dalle parti di Gaza. Qui è inevitabile ricordare la Mavi Marmara del 2010: l’abbordaggio israeliano in acque internazionali, dieci morti, condanne internazionali. Ma il blocco restò intatto. Israele imparò che poteva reggere l’urto della critica pur di mantenere la sua linea di sicurezza. E infatti oggi, con la flotilla “Global Sumud” salpata da porti europei, il copione si ripete: avvisi, droni, sabotaggi, la prospettiva di un abbordaggio armato. Non per “affondare la flotilla”, ma per riaffermare l’intangibilità del blocco.

Che cosa può accadere? Intercettazioni in mare, arresti, sequestri di merci. Forse incidenti più gravi, se gli attivisti opporranno resistenza. Ma soprattutto una nuova crisi diplomatica: perché stavolta ci sono cittadini europei a bordo, e persino navi militari di Italia e Spagna inviate in scorta. Israele si trova quindi stretto fra la logica della sicurezza assoluta e il rischio di rompere con partner occidentali che non può permettersi di perdere.

Così il quadro si chiude. Da un lato Kiev, popolo aggredito che non riesce più a occupare le prime pagine. Dall’altro Gaza, dove ogni gesto diventa immediatamente globale. L’Occidente applica due pesi e due misure, oscillando tra Est e Sud a seconda delle crisi. La sinistra si attorciglia in formule ambigue, mentre la destra offre un’immagine più compatta e per questo più udibile.

Il risultato è un’ambiguità che diventa sistema. Kiev resta sola a combattere una guerra infinita; Gaza resta un campo di battaglia simbolico, dove ogni nave che salpa diventa un atto politico, ogni abbordaggio un dramma che risuona nel mondo. E soprattutto, resta irrisolta la questione più profonda: i diritti dell’individuo sono davvero universali, o sono solo un’arma che ciascuno piega alla propria visione del mondo?

Insomma, etica dei principi o etica della responsabilità? Probabilmente non c’è risposta. E in ogni caso impareremo vivendo. Forse.

Carlo Gambescia

2 commenti:

  1. Concordo in tutto. Un saluto. Giulio Contini.

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  2. Dottore carissimo, ringrazio del commento e ricambio il saluto.

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