Proposta di traccia per l’esame di maturità 2018:
“Meglio la Mafia o meglio lo Stato? Fate
un’analisi costi/benefici a partire da un caso di cronaca”
di Roberto Buffagni
Marisa e Lea Garofalo |
Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?[1]
Leggo sul "Corriere della Sera" di oggi[2]
una notizia stimolante: a Marisa Garofalo, sorella di Lea assassinata nel 2009,
il Ministero dell’Interno ha negato il risarcimento previsto per le vittime
della mafia. Passata in giudicato la sentenza per l’assassinio di sua sorella, i
giudici le avevano assegnato 75.000 euro. Però la Prefettura di Crotone,
dopo due anni e mezzo di attesa (la legge prevede risposta entro 60 giorni)
glieli ha negati perché, in base a un rapporto della locale stazione dei
carabinieri, “La Signoria vostra non risulta essere del tutto
estranea ad ambienti e rapporti delinquenziali”, come invece prevede la
norma. E in effetti Marisa Garofalo, come sua sorella Lea prima di lei,
estranea all’ambiente della ‘ndrangheta non è, altrimenti non avrebbe potuto
testimoniare contro i parenti e conoscenti mafiosi che hanno ucciso sua sorella.
Nel caso specifico, contro suo cognato Giuseppe Cosco, che ha torturato e
ammazzato la sorella di Marisa, Lea, che schifata dall’ambiente criminale in
cui era nata e vissuta, se n’era allontanata e aveva denunciato il marito che
poi l’ha sequestrata, torturata, uccisa, sciolta nell’acido.
E’ una storia educativa, quella di Lea Garofalo. L’ho
raccontata il 9 marzo 2013 sul blog di Carlo Gambescia, per celebrare la festa
della donna, http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2013/03/celebriamo-la-festa-delladonna-il.html
e non la riscrivo, la ripubblico qui in calce. L’intitolai Lettere morte, perché le stazioni della
Via Crucis di Lea Garofalo sono i molti vani appelli alle istituzioni dello
Stato, compresa una formidabile lettera aperta al Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano: suppliche di ascolto e soccorso che tutte rimasero lettera morta. Purtroppo, devo
constatare che mai ebbi un’idea più azzeccata per un titolo: me lo conferma
quest’ultima beffarda replica del Ministero dell’Interno, un capolavoro anche
stilistico di humour noir burocratico
(“La Signoria Vostra ” è un tocco di crudeltà
barocca maravillosa: “Chi non sa far stupir, vada a la striglia”[3]).
In questi giorni, il MIUR sta elaborando le tracce per i
temi dell’esame di maturità. Mi permetto di suggerire a chi di competenza la
seguente traccia: “Meglio la Mafia o meglio lo Stato?
Fate un’analisi costi/benefici a partire da un caso di cronaca”.
Naturalmente il caso di cronaca è quello di Lea Garofalo, pre e post mortem.
Non lo svolgo per intero, fornisco appena una minima falsariga in tre punti per
i maturandi.
1. Chi
applica con maggiore certezza e celerità le proprie leggi? La Mafia o lo Stato?
2. Chi
ricompensa con maggiore generosità e prontezza chi gli rende un servigio, e
punisce chi lo offende? La Mafia
o lo Stato?
3. Chi
fa corrispondere con maggiore regolarità i fatti alle parole? La Mafia o lo Stato?
Buon lavoro a tutti gli esaminandi. Non so se scegliere
questa traccia vi aiuterà a prendere un bel voto all’esame; ma vi garantisco
che svolgerla riflettendo seriamente vi aiuterà a maturare nella vita; chissà, forse
anche troppo.
LETTERE MORTE
Non so se avete sentito del processo per l’assassinio di Lea
Garofalo. Se volete informarvi, andate al sito www.stampoantimafioso.it e trovate
tutto, compresa la cronaca del processo tuttora in corso. E’ una storia di
‘ndrangheta, mafia calabrese di gran moda dopo la strage di Duisburg. Di
solito, non seguo le storie di mafia sui giornali. Da quarant’anni sento
parlare di lotta alla mafia, di ribellione della società civile, della
democrazia contro la criminalità organizzata, e via dicendo. Da quarant’anni
vedo gli eroi e i martiri che una volta morti ammazzati fanno anche il miracolo
dell’immediata moltiplicazione degli amici, dei discepoli, dei medium-portavoce
e dei protettori in alto loco. Fin dalle celebri serie TV della Piovra che fecero la (meritata) fortuna
di Michele Placido si realizzano tanti film, fiction, libri e dibattiti sulle
mafie. Intanto le mafie si confermano settore in espansione e se la passano
alla grande. Due estati fa, verso le undici di sera, scendendo le scale di casa
mia (sita nelle campagne del modenese, non del cosentino o del palermitano)
guardo dalla finestra e vedo sfavillare, a un paio di chilometri di distanza,
una magnifica aurora boreale: una mafia ha incendiato centinaia di cassoni per
la frutta, impilati nel piazzale di una cooperativa agricola che non aveva
capito l’antifona. Quando il discorso cade sull’argomento e non ho il buon
senso di stare zitto, dico cose che suscitano preoccupate reazioni tra gli
astanti, tipo “Rifacciamo la guerra al brigantaggio, però stavolta contro i
briganti veri, invece che contro i leali sudditi di Sua Maestà borbonica!
Mandiamo l’esercito, e non a dirigere il traffico! Legge marziale, stato
d’assedio!” e altre esternazioni da ex colonnello degli Alpini al primo
manifestarsi del morbo di Alzheimer-Perusini.
Però, nel luglio 2011 mi è capitato di leggere una notizia che
mi ha scosso, e garantisco che a cinquantacinque anni, con quello che ho visto
e non solo visto succedere in Italia, per scuotermi ce ne vuole. La notizia
diceva che il dr. Filippo Grisolia, presidente il processo per l’assassinio di
Lea Garofalo, aveva accolto la richiesta dei difensori e derubricato
l’imputazione da omicidio di stampo mafioso a omicidio passionale. (Pochi
giorni fa, il PM Marcello Tatangelo ha respinto anche la richiesta di parte
civile di contestare agli imputati l’aggravante di aver agito con modalità
mafiose, adducendo ragioni tecniche, in quanto si tratta di un’aggravante “a dolo
specifico”: dev’essere l’unica finalità dell’azione, mentre gli imputati
avrebbero agito per una serie di motivazioni).
Sapendo cos’era successo, la cosa era effettivamente un po’
forte. Lea Garofalo era un donnino calabrese, figlia d’una famiglia di ndranghetisti
importanti, che, trovato un compagno di vita nel suo ambiente, Carlo Cosco, a
diciassette anni ci aveva fatto una figlia oggi ventenne, Denise. Una dozzina
d’anni fa, Lea si disgusta di vivere in quel modo e con quella gente. Lascia
Cosco, e si rivolge agli organi di polizia giudiziaria. Racconta quel che sa,
chiede protezione e aiuto per iniziare una vita diversa per sé e per la figlia.
Non succede niente. Cioè, da un canto Lea non ha commesso crimini in proprio, e
dall’altro le sue deposizioni non danno luogo ad azioni giudiziarie. Perché?
Non lo so. Forse, come ha detto in aula il difensore del suo compagno di vita e
assassino, Lea “riferiva notizie che
conoscevano tutti, anche i sassi”, tant’è vero che “nessuna Procura della Repubblica ha ritenuto attendibili le [sue] testimonianze.” Come collaboratrice di
giustizia, dunque, Lea vale poco, e le danno una protezione light. La mandano
un po’ in giro per l’Italia insieme alla figlia passandole qualche soldo, ma
non le creano la nuova identità necessaria per ricominciare. Nel frattempo,
Cosco ha già saputo attraverso i suoi canali, meno intasati da Law’s delay ed insolence of Office, che la madre di sua figlia sta a Campobasso.
D’altronde Lea, visto il trattamento ricevuto dalla Giustizia italiana, ha
rinunciato a nascondersi, e per sopravvivere conta su due punti a suo favore: è
sorella di un pezzo grosso della ‘ndrangheta, uno molto più importante di
Cosco; e Cosco è pur sempre il padre di sua figlia. Così, avendo anche bisogno
di soldi per Denise, si sente al telefono con Cosco, che infatti si dimostra
molto disponibile, e nel maggio del 2009, quando si rompe la lavatrice a casa
di Lea, premurosamente le manda subito un tecnico. Il tecnico però non può
eseguire la riparazione (non può ammazzare Lea) perché quel giorno Denise,
invece di liberare il campo andando a scuola, è rimasta a casa con la febbre, e
il suo assassinio non è previsto dalla commessa.
Bè, a questo punto non ci voleva un veggente per capire come
andava a finire. Lea lo capisce benissimo. Infatti scrive – a mano, come un
testamento olografo - una lettera aperta al Presidente della Repubblica
italiana Giorgio Napolitano, tipico atto di chi non spera più niente in questo
mondo. Nella lettera di Lea si leggono brani che, sebbene l’autrice, titolare
di licenza media inferiore, avesse poca dimestichezza con gli splendori della
lingua italiana, attingono un’ innegabile forza espressiva: ad esempio, “Signor Presidente della Repubblica, chi le
scrive è una giovane madre, disperata allo stremo delle sue forze. […] Siamo da circa 7 anni in un programma di
protezione provvisorio. In casi normali la provvisorietà dura all'incirca 1
anno, in questo caso si è oltrepassato ogni tempo e, permettetemi, ogni limite.
[…] Vengo ascoltata da un magistrato dopo
un mese delle mie dichiarazioni in presenza di un maresciallo e di un legale
assegnatomi, mi dissero che bisognava aspettare di trovare un magistrato che
non fosse corrotto. […] Oggi mi
ritrovo, assieme a mia figlia isolata da tutto e da tutti, ho perso tutto, la
mia famiglia, ho perso il mio lavoro (anche se precario) ho perso la casa, ho
perso i miei innumerevoli amici, ho perso ogni aspettativa di futuro […] e sa qual è la cosa peggiore? La cosa
peggiore è che conosco già il destino che mi spetta, dopo essere stata colpita
negli interessi materiali e affettivi arriverà la morte… indegna inesorabile! […] Lei oggi, signor presidente, può cambiare
il corso della storia, se vuole può aiutare chi, non si sa bene perché, o come,
riesce ancora a credere che anche in questo paese vivere giustamente si può
nonostante tutto!”
Non succede niente. I giornali non pubblicano la lettera; o
meglio, qualche giornale locale come il “Quotidiano della Calabria” la
pubblica, ma solo quando Lea è diventata celebre, cioè dopo che l’hanno
ammazzata e sciolta nell’acido. Sempre dopo la morte di Lea, dal Quirinale
faranno sapere che a loro non è arrivata posta. Chissà, forse un disguido:
certo che se Lea mandava una raccomandata a. r. era tutt’altra cosa. E
arriviamo a Milano; è una serata del novembre 2009, cinque mesi dopo la
lavatrice di Campobasso. Denise ha finito le scuole superiori, vorrebbe andare
all’Università. Ci vogliono i soldi, Lea non ne ha. Prende appuntamento con
Carlo Cosco per parlarne. Naturalmente la sconsigliano, ma lei all’appuntamento
va lo stesso. E’ stanca, vuole
farla finita? “and by a sleep, to say we end the heart-ache,
and the thousand Natural shocks that Flesh is heir to? 'Tis a consummation devoutly to be wished”[4]. O nonostante tutto, non riesce a credere che
il padre di sua figlia la voglia ammazzare sul serio e di persona? Non lo so,
vedete voi. Fatto sta che fa un’ultima passeggiata insieme a sua figlia (per
gli spiriti e gli stomaci forti, c’è anche il video in rete, ripreso dalle
telecamere di sorveglianza stradale del Comune di Milano) e poi incontra Cosco,
che la sequestra, la fa salire su un furgone che si è fatto prestare da un
cinese, la porta in un’officina dell’hinterland milanese, insieme a certi amici
suoi la tortura per sapere nei dettagli che cosa ha detto alla polizia, la
uccide, la scioglie nell’acido, e quando i parenti chiedono che fine ha fatto
casca dalle nuvole, ipotizza vacanze ai Caraibi.
Denise va a stare con il padre e i parenti in Calabria,
perché deve convincerli che non è pericolosa, altrimenti c’è il rischio che
ammazzino anche lei (segnalo en passant
che tra i complici di papà nell’omicidio della mamma c’era anche un ragazzo
calabrese di cui Denise si era innamorata, un suo fidanzatino).
A questo punto, comincia a succedere un sacco di roba.
Succede che arrestano Cosco e i suoi complici, e li traducono in giudizio.
Parte il processo, presieduto come dicevo dal dr. Filippo Grisolia. Testimone
chiave dell’accusa, Denise Cosco. Succede che l’imputazione viene derubricata
dal dr. Grisolia da omicidio di stampo mafioso a omicidio passionale: insomma,
a quanto pare Cosco avrebbe ammazzato Lea perché ferito nei sentimenti e
nell’onore dall’abbandono e dal tradimento della compagna di vita; se poi l’ha
ammazzata in quel modo, dipenderà dalla cultura del suo ambiente (un po’ di
multiculturalismo non guasta mai). Tra i vari benefici che comporta la
derubricazione, c’è anche la possibilità di accedere al patrocinio gratuito.
Cosco dichiara un reddito di 10.000 € circa, e dunque può nominare suo
difensore il noto professionista milanese Avv. Daniele Sussman Steinberg, che
presenterà la parcella al contribuente italiano. Succede che si insedia il
Governo Monti, e che il dr. Grisolia ottiene la nomina a capo di gabinetto del
Guardasigilli Paola Severino. Il dr. Grisolia abbandona immediatamente il
processo Garofalo. Esercitando il loro diritto, i difensori esigono che siano
escussi daccapo tutti i testi davanti al nuovo presidente della Corte, dr. Anna
Introini. Alle polemiche, il dr. Grisolia risponde che non se lo aspettava, e
che comunque il processo va avanti. Vero, però se non arriva a sentenza entro
il luglio 2012, gli imputati escono per decorrenza dei termini di carcerazione
preventiva. Due deputati PdL, A. Mantovano ed E. Crosetto, lanciano un appello
alla “ben nota sensibilità” del
Guardasigilli perché “disponga che la
completa assunzione del nuovo incarico da parte del dott. Grisolia gli permetta
di completare almeno il processo in questione” com’è d’altronde nella “prassi, raccomandata dal Csm e dall' Anm,
che chi cambia funzione salva le pendenze più importanti, per evitare rischi
(sussistenti nel caso specifico) di liberazione per decorrenza termini degli
imputati, e comunque gravi disagi per i testimoni.” Non succede niente.
Evidentemente, il dr. Grisolia non può fare il part time al Ministero. Però il
Ministro Severino, dandoci conferma della sua “ben nota sensibilità,” a
proposito di Denise Cosco dice che “sotto
il profilo umano rimane il profondo disagio e la sincera vicinanza a una
testimone che vedrà rinnovato il suo dolore”.
Sapute queste cose, per la primissima volta nella mia vita
mi metto a scrivere lettere ai giornali, come un pensionato. Scrivo ai
principali quotidiani di destra, sinistra, centro, opinione. Non succede
niente, nessuno pubblica. Leggo che Massimo Gramellini, in una trasmissione TV,
ha detto che in aula il dr. Grisolia s’era comportato “da vero papà” nei
confronti di Denise, e gli scrivo illustrandogli la dissonanza cognitiva tra
l’appellativo “vero papà” e le decisioni processuali del dr. Grisolia.
Gramellini gentilmente mi risponde e mi dice che approfondirà la vicenda, che
ne scriverà: poi però non scrive niente. Gli scrivo di nuovo e sono anche,
fatto per me più unico che raro, abbastanza sgarbato, così che mi tocca
riscrivergli e scusarmi. Poi scrivo a tutti i componenti la Commissione Giustizia
della Camera dei Deputati, riassumendo la vicenda e invitandoli a chiedersi se
era indispensabile che tra tutti i magistrati in servizio, proprio il dr. Grisolia
venisse nominato capo di gabinetto del Guardasigilli, il tecnico Paola
Severino. Non succede niente. Cerco anche di parlarne al filo diretto della
rassegna stampa mattutina di Radio Tre. Non succede niente, non mi passano mai
il giornalista. Poi qualche giorno fa succede qualcosa. Sempre a Radio Tre,
alle dieci del mattino, la rubrica “Tutta la città ne parla” sceglie di
trattare l’argomento del processo Garofalo. Una signora (non ricordo il nome,
mi dispiace) che lavora in una associazione antimafia ha mandato una lettera al
Ministro della Giustizia Paola Severino, lamentando che nel processo Garofalo
si sia derubricata l’imputazione da omicidio di stampo mafioso a omicidio
passionale, e protesta che non è successo niente: nessuno le ha risposto. Alla
velocità della luce, mando un sms, naturalmente firmato con nome e cognome, al
conduttore della trasmissione radiofonica, e gli condenso in una folgorante
pillola com’è andata la faccenda. Il conduttore reagisce immediatamente.
“Riceviamo un sms molto articolato sulla vicenda…” Io tripudio. Il conduttore
continua: “Non possiamo leggerlo tutto” (sono dieci righe) “ma è importante
quel che ci segnala, è cioè il ruolo di Denise Cosco, una giovane donna che
coraggiosamente si ribella alla mafia.” E insieme alla signora
dell’associazione antimafia e a una sociologa, prosegue per tutta la mezz’ora
della trasmissione ad analizzare in chiave femminista-surrealista il nuovo
ruolo delle donne sia nelle varie mafie, sia nelle varie antimafie
istituzionali e non. Delle curiose scelte processuali e di carriera del dr.
Grisolia, degli assassini che potrebbero uscire a luglio prossimo, di Denise
che rischia la pelle, zero. Insomma, non succede niente.
Mi do dello scemo, e ricordando a me stesso i miei tanti
sarcasmi sulla figura del cittadino scomodo, mi riprometto di lasciar perdere e
non pensarci più. Passano tre o quattro giorni. Stamattina comincio a lavorare
ma mi torna in mente questa brutta faccenda, non combino niente di buono.
Scrivo questo pezzo per il blog dell’amico Carlo Gambescia, che così impara a
invitarmi a scriverci. Mi sento un po’ meglio, non tanto ma un po’ meglio sì.
Lui lo pubblicherà. Non succederà niente.
Roberto Buffagni
Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il
suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di
Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal
titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia…
insomma, dell’oggettistica vintage...
[1]
“Senza giustizia, che sono dunque gli Stati, se non grosse bande criminali?” S.
Agostino, De Civitate Dei contra paganos,
Liber IV
[3] "È
del poeta il fin la meraviglia (Parlo de l'eccellente, non del goffo): Chi non
sa far stupir, vada a la striglia" Giambattista Marino, Fischiata
XXXIII, in Murtoleide
[4] “E
con una dormita, dire che mettiamo fine/ al crepacuore e ai mille colpi che
Natura/ lascia in eredità alla carne? E’ una soluzione/ che anche il devoto può
desiderare” (Dal celeberrimo monologo di Amleto, “To be or not to be”. Traduzione, un po’ libera, mia).
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