lunedì 7 maggio 2018

Proposta di traccia per l’esame di maturità 2018:

“Meglio la Mafia o meglio lo Stato? Fate un’analisi costi/benefici a partire da un caso di cronaca”

di Roberto Buffagni


Marisa e Lea Garofalo


Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?[1]

Leggo sul "Corriere della Sera" di oggi[2] una notizia stimolante: a Marisa Garofalo, sorella di Lea assassinata nel 2009, il Ministero dell’Interno ha negato il risarcimento previsto per le vittime della mafia. Passata in giudicato la sentenza per l’assassinio di sua sorella, i giudici le avevano assegnato 75.000 euro. Però la Prefettura di Crotone, dopo due anni e mezzo di attesa (la legge prevede risposta entro 60 giorni) glieli ha negati perché, in base a un rapporto della locale stazione dei carabinieri, “La Signoria vostra non risulta essere del tutto estranea ad ambienti e rapporti delinquenziali”, come invece prevede la norma. E in effetti Marisa Garofalo, come sua sorella Lea prima di lei, estranea all’ambiente della ‘ndrangheta non è, altrimenti non avrebbe potuto testimoniare contro i parenti e conoscenti mafiosi che hanno ucciso sua sorella. Nel caso specifico, contro suo cognato Giuseppe Cosco, che ha torturato e ammazzato la sorella di Marisa, Lea, che schifata dall’ambiente criminale in cui era nata e vissuta, se n’era allontanata e aveva denunciato il marito che poi l’ha sequestrata, torturata, uccisa, sciolta nell’acido.
E’ una storia educativa, quella di Lea Garofalo. L’ho raccontata il 9 marzo 2013 sul blog di Carlo Gambescia, per celebrare la festa della donna, http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2013/03/celebriamo-la-festa-delladonna-il.html
e non la riscrivo, la ripubblico qui in calce. L’intitolai Lettere morte, perché le stazioni della Via Crucis di Lea Garofalo sono i molti vani appelli alle istituzioni dello Stato, compresa una formidabile lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: suppliche di ascolto e soccorso che tutte rimasero lettera morta. Purtroppo, devo constatare che mai ebbi un’idea più azzeccata per un titolo: me lo conferma quest’ultima beffarda replica del Ministero dell’Interno, un capolavoro anche stilistico di humour noir burocratico (“La Signoria Vostra” è un tocco di crudeltà barocca maravillosa: “Chi non sa far stupir, vada a la striglia”[3]).
In questi giorni, il MIUR sta elaborando le tracce per i temi dell’esame di maturità. Mi permetto di suggerire a chi di competenza la seguente traccia: “Meglio la Mafia o meglio lo Stato? Fate un’analisi costi/benefici a partire da un caso di cronaca”. Naturalmente il caso di cronaca è quello di Lea Garofalo, pre e post mortem. Non lo svolgo per intero, fornisco appena una minima falsariga in tre punti per i maturandi.
1.     Chi applica con maggiore certezza e celerità le proprie leggi? La Mafia o lo Stato?
2.     Chi ricompensa con maggiore generosità e prontezza chi gli rende un servigio, e punisce chi lo offende? La Mafia o lo Stato?
3.     Chi fa corrispondere con maggiore regolarità i fatti alle parole? La Mafia o lo Stato?
Buon lavoro a tutti gli esaminandi. Non so se scegliere questa traccia vi aiuterà a prendere un bel voto all’esame; ma vi garantisco che svolgerla riflettendo seriamente vi aiuterà a maturare nella vita; chissà, forse anche troppo.

LETTERE MORTE

Non so se avete sentito del processo per l’assassinio di Lea Garofalo. Se volete informarvi, andate al sito www.stampoantimafioso.it e trovate tutto, compresa la cronaca del processo tuttora in corso. E’ una storia di ‘ndrangheta, mafia calabrese di gran moda dopo la strage di Duisburg. Di solito, non seguo le storie di mafia sui giornali. Da quarant’anni sento parlare di lotta alla mafia, di ribellione della società civile, della democrazia contro la criminalità organizzata, e via dicendo. Da quarant’anni vedo gli eroi e i martiri che una volta morti ammazzati fanno anche il miracolo dell’immediata moltiplicazione degli amici, dei discepoli, dei medium-portavoce e dei protettori in alto loco. Fin dalle celebri serie TV della Piovra che fecero la (meritata) fortuna di Michele Placido si realizzano tanti film, fiction, libri e dibattiti sulle mafie. Intanto le mafie si confermano settore in espansione e se la passano alla grande. Due estati fa, verso le undici di sera, scendendo le scale di casa mia (sita nelle campagne del modenese, non del cosentino o del palermitano) guardo dalla finestra e vedo sfavillare, a un paio di chilometri di distanza, una magnifica aurora boreale: una mafia ha incendiato centinaia di cassoni per la frutta, impilati nel piazzale di una cooperativa agricola che non aveva capito l’antifona. Quando il discorso cade sull’argomento e non ho il buon senso di stare zitto, dico cose che suscitano preoccupate reazioni tra gli astanti, tipo “Rifacciamo la guerra al brigantaggio, però stavolta contro i briganti veri, invece che contro i leali sudditi di Sua Maestà borbonica! Mandiamo l’esercito, e non a dirigere il traffico! Legge marziale, stato d’assedio!” e altre esternazioni da ex colonnello degli Alpini al primo manifestarsi del morbo di Alzheimer-Perusini.
Però, nel luglio 2011 mi è capitato di leggere una notizia che mi ha scosso, e garantisco che a cinquantacinque anni, con quello che ho visto e non solo visto succedere in Italia, per scuotermi ce ne vuole. La notizia diceva che il dr. Filippo Grisolia, presidente il processo per l’assassinio di Lea Garofalo, aveva accolto la richiesta dei difensori e derubricato l’imputazione da omicidio di stampo mafioso a omicidio passionale. (Pochi giorni fa, il PM Marcello Tatangelo ha respinto anche la richiesta di parte civile di contestare agli imputati l’aggravante di aver agito con modalità mafiose, adducendo ragioni tecniche, in quanto si tratta di un’aggravante “a dolo specifico”: dev’essere l’unica finalità dell’azione, mentre gli imputati avrebbero agito per una serie di motivazioni).
Sapendo cos’era successo, la cosa era effettivamente un po’ forte. Lea Garofalo era un donnino calabrese, figlia d’una famiglia di ndranghetisti importanti, che, trovato un compagno di vita nel suo ambiente, Carlo Cosco, a diciassette anni ci aveva fatto una figlia oggi ventenne, Denise. Una dozzina d’anni fa, Lea si disgusta di vivere in quel modo e con quella gente. Lascia Cosco, e si rivolge agli organi di polizia giudiziaria. Racconta quel che sa, chiede protezione e aiuto per iniziare una vita diversa per sé e per la figlia. Non succede niente. Cioè, da un canto Lea non ha commesso crimini in proprio, e dall’altro le sue deposizioni non danno luogo ad azioni giudiziarie. Perché? Non lo so. Forse, come ha detto in aula il difensore del suo compagno di vita e assassino, Lea “riferiva notizie che conoscevano tutti, anche i sassi”, tant’è vero che “nessuna Procura della Repubblica ha ritenuto attendibili le [sue] testimonianze.” Come collaboratrice di giustizia, dunque, Lea vale poco, e le danno una protezione light. La mandano un po’ in giro per l’Italia insieme alla figlia passandole qualche soldo, ma non le creano la nuova identità necessaria per ricominciare. Nel frattempo, Cosco ha già saputo attraverso i suoi canali, meno intasati da Law’s delay ed insolence of Office, che la madre di sua figlia sta a Campobasso. D’altronde Lea, visto il trattamento ricevuto dalla Giustizia italiana, ha rinunciato a nascondersi, e per sopravvivere conta su due punti a suo favore: è sorella di un pezzo grosso della ‘ndrangheta, uno molto più importante di Cosco; e Cosco è pur sempre il padre di sua figlia. Così, avendo anche bisogno di soldi per Denise, si sente al telefono con Cosco, che infatti si dimostra molto disponibile, e nel maggio del 2009, quando si rompe la lavatrice a casa di Lea, premurosamente le manda subito un tecnico. Il tecnico però non può eseguire la riparazione (non può ammazzare Lea) perché quel giorno Denise, invece di liberare il campo andando a scuola, è rimasta a casa con la febbre, e il suo assassinio non è previsto dalla commessa.
Bè, a questo punto non ci voleva un veggente per capire come andava a finire. Lea lo capisce benissimo. Infatti scrive – a mano, come un testamento olografo - una lettera aperta al Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, tipico atto di chi non spera più niente in questo mondo. Nella lettera di Lea si leggono brani che, sebbene l’autrice, titolare di licenza media inferiore, avesse poca dimestichezza con gli splendori della lingua italiana, attingono un’ innegabile forza espressiva: ad esempio, “Signor Presidente della Repubblica, chi le scrive è una giovane madre, disperata allo stremo delle sue forze. […] Siamo da circa 7 anni in un programma di protezione provvisorio. In casi normali la provvisorietà dura all'incirca 1 anno, in questo caso si è oltrepassato ogni tempo e, permettetemi, ogni limite. […] Vengo ascoltata da un magistrato dopo un mese delle mie dichiarazioni in presenza di un maresciallo e di un legale assegnatomi, mi dissero che bisognava aspettare di trovare un magistrato che non fosse corrotto. […] Oggi mi ritrovo, assieme a mia figlia isolata da tutto e da tutti, ho perso tutto, la mia famiglia, ho perso il mio lavoro (anche se precario) ho perso la casa, ho perso i miei innumerevoli amici, ho perso ogni aspettativa di futuro […] e sa qual è la cosa peggiore? La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi spetta, dopo essere stata colpita negli interessi materiali e affettivi arriverà la morte… indegna inesorabile! […] Lei oggi, signor presidente, può cambiare il corso della storia, se vuole può aiutare chi, non si sa bene perché, o come, riesce ancora a credere che anche in questo paese vivere giustamente si può nonostante tutto!
Non succede niente. I giornali non pubblicano la lettera; o meglio, qualche giornale locale come il “Quotidiano della Calabria” la pubblica, ma solo quando Lea è diventata celebre, cioè dopo che l’hanno ammazzata e sciolta nell’acido. Sempre dopo la morte di Lea, dal Quirinale faranno sapere che a loro non è arrivata posta. Chissà, forse un disguido: certo che se Lea mandava una raccomandata a. r. era tutt’altra cosa. E arriviamo a Milano; è una serata del novembre 2009, cinque mesi dopo la lavatrice di Campobasso. Denise ha finito le scuole superiori, vorrebbe andare all’Università. Ci vogliono i soldi, Lea non ne ha. Prende appuntamento con Carlo Cosco per parlarne. Naturalmente la sconsigliano, ma lei all’appuntamento va lo stesso. E’ stanca, vuole farla finita? “and by a sleep, to say we end the heart-ache, and the thousand Natural shocks that Flesh is heir to? 'Tis a consummation devoutly to be wished”[4].  O nonostante tutto, non riesce a credere che il padre di sua figlia la voglia ammazzare sul serio e di persona? Non lo so, vedete voi. Fatto sta che fa un’ultima passeggiata insieme a sua figlia (per gli spiriti e gli stomaci forti, c’è anche il video in rete, ripreso dalle telecamere di sorveglianza stradale del Comune di Milano) e poi incontra Cosco, che la sequestra, la fa salire su un furgone che si è fatto prestare da un cinese, la porta in un’officina dell’hinterland milanese, insieme a certi amici suoi la tortura per sapere nei dettagli che cosa ha detto alla polizia, la uccide, la scioglie nell’acido, e quando i parenti chiedono che fine ha fatto casca dalle nuvole, ipotizza vacanze ai Caraibi.
Denise va a stare con il padre e i parenti in Calabria, perché deve convincerli che non è pericolosa, altrimenti c’è il rischio che ammazzino anche lei (segnalo en passant che tra i complici di papà nell’omicidio della mamma c’era anche un ragazzo calabrese di cui Denise si era innamorata, un suo fidanzatino).
A questo punto, comincia a succedere un sacco di roba. Succede che arrestano Cosco e i suoi complici, e li traducono in giudizio. Parte il processo, presieduto come dicevo dal dr. Filippo Grisolia. Testimone chiave dell’accusa, Denise Cosco. Succede che l’imputazione viene derubricata dal dr. Grisolia da omicidio di stampo mafioso a omicidio passionale: insomma, a quanto pare Cosco avrebbe ammazzato Lea perché ferito nei sentimenti e nell’onore dall’abbandono e dal tradimento della compagna di vita; se poi l’ha ammazzata in quel modo, dipenderà dalla cultura del suo ambiente (un po’ di multiculturalismo non guasta mai). Tra i vari benefici che comporta la derubricazione, c’è anche la possibilità di accedere al patrocinio gratuito. Cosco dichiara un reddito di 10.000 € circa, e dunque può nominare suo difensore il noto professionista milanese Avv. Daniele Sussman Steinberg, che presenterà la parcella al contribuente italiano. Succede che si insedia il Governo Monti, e che il dr. Grisolia ottiene la nomina a capo di gabinetto del Guardasigilli Paola Severino. Il dr. Grisolia abbandona immediatamente il processo Garofalo. Esercitando il loro diritto, i difensori esigono che siano escussi daccapo tutti i testi davanti al nuovo presidente della Corte, dr. Anna Introini. Alle polemiche, il dr. Grisolia risponde che non se lo aspettava, e che comunque il processo va avanti. Vero, però se non arriva a sentenza entro il luglio 2012, gli imputati escono per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Due deputati PdL, A. Mantovano ed E. Crosetto, lanciano un appello alla “ben nota sensibilità” del Guardasigilli perché “disponga che la completa assunzione del nuovo incarico da parte del dott. Grisolia gli permetta di completare almeno il processo in questione” com’è d’altronde nella “prassi, raccomandata dal Csm e dall' Anm, che chi cambia funzione salva le pendenze più importanti, per evitare rischi (sussistenti nel caso specifico) di liberazione per decorrenza termini degli imputati, e comunque gravi disagi per i testimoni.” Non succede niente. Evidentemente, il dr. Grisolia non può fare il part time al Ministero. Però il Ministro Severino, dandoci conferma della sua “ben nota sensibilità,” a proposito di Denise Cosco dice che “sotto il profilo umano rimane il profondo disagio e la sincera vicinanza a una testimone che vedrà rinnovato il suo dolore”.
Sapute queste cose, per la primissima volta nella mia vita mi metto a scrivere lettere ai giornali, come un pensionato. Scrivo ai principali quotidiani di destra, sinistra, centro, opinione. Non succede niente, nessuno pubblica. Leggo che Massimo Gramellini, in una trasmissione TV, ha detto che in aula il dr. Grisolia s’era comportato “da vero papà” nei confronti di Denise, e gli scrivo illustrandogli la dissonanza cognitiva tra l’appellativo “vero papà” e le decisioni processuali del dr. Grisolia. Gramellini gentilmente mi risponde e mi dice che approfondirà la vicenda, che ne scriverà: poi però non scrive niente. Gli scrivo di nuovo e sono anche, fatto per me più unico che raro, abbastanza sgarbato, così che mi tocca riscrivergli e scusarmi. Poi scrivo a tutti i componenti la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, riassumendo la vicenda e invitandoli a chiedersi se era indispensabile che tra tutti i magistrati in servizio, proprio il dr. Grisolia venisse nominato capo di gabinetto del Guardasigilli, il tecnico Paola Severino. Non succede niente. Cerco anche di parlarne al filo diretto della rassegna stampa mattutina di Radio Tre. Non succede niente, non mi passano mai il giornalista. Poi qualche giorno fa succede qualcosa. Sempre a Radio Tre, alle dieci del mattino, la rubrica “Tutta la città ne parla” sceglie di trattare l’argomento del processo Garofalo. Una signora (non ricordo il nome, mi dispiace) che lavora in una associazione antimafia ha mandato una lettera al Ministro della Giustizia Paola Severino, lamentando che nel processo Garofalo si sia derubricata l’imputazione da omicidio di stampo mafioso a omicidio passionale, e protesta che non è successo niente: nessuno le ha risposto. Alla velocità della luce, mando un sms, naturalmente firmato con nome e cognome, al conduttore della trasmissione radiofonica, e gli condenso in una folgorante pillola com’è andata la faccenda. Il conduttore reagisce immediatamente. “Riceviamo un sms molto articolato sulla vicenda…” Io tripudio. Il conduttore continua: “Non possiamo leggerlo tutto” (sono dieci righe) “ma è importante quel che ci segnala, è cioè il ruolo di Denise Cosco, una giovane donna che coraggiosamente si ribella alla mafia.” E insieme alla signora dell’associazione antimafia e a una sociologa, prosegue per tutta la mezz’ora della trasmissione ad analizzare in chiave femminista-surrealista il nuovo ruolo delle donne sia nelle varie mafie, sia nelle varie antimafie istituzionali e non. Delle curiose scelte processuali e di carriera del dr. Grisolia, degli assassini che potrebbero uscire a luglio prossimo, di Denise che rischia la pelle, zero. Insomma, non succede niente.
Mi do dello scemo, e ricordando a me stesso i miei tanti sarcasmi sulla figura del cittadino scomodo, mi riprometto di lasciar perdere e non pensarci più. Passano tre o quattro giorni. Stamattina comincio a lavorare ma mi torna in mente questa brutta faccenda, non combino niente di buono. Scrivo questo pezzo per il blog dell’amico Carlo Gambescia, che così impara a invitarmi a scriverci. Mi sento un po’ meglio, non tanto ma un po’ meglio sì. Lui lo pubblicherà. Non succederà niente.

Roberto  Buffagni


Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...








[1] “Senza giustizia, che sono dunque gli Stati, se non grosse bande criminali?” S. Agostino, De Civitate Dei contra paganos, Liber IV
[3] "È del poeta il fin la meraviglia (Parlo de l'eccellente, non del goffo): Chi non sa far stupir, vada a la striglia" Giambattista Marino,  Fischiata XXXIII, in Murtoleide
[4] “E con una dormita, dire che mettiamo fine/ al crepacuore e ai mille colpi che Natura/ lascia in eredità alla carne? E’ una soluzione/ che anche il devoto può desiderare” (Dal celeberrimo monologo di Amleto, “To be or not to be”. Traduzione, un po’ libera, mia).

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