Perché solo l' Italia rischia che i populisti vadano al governo?
Dove vince l'etica della responsabilità, il populismo perde
Berlusconi
il "Contratto" nel 2001 lo “stipulò” con gli italiani, in tv davanti a Vespa. Perciò parlava a tutti, al di là del colore
politico. Riprese l’idea, come gli fu
consigliato, del “Contratto con gli americani” varato dai Repubblicani nel
1994.
Non
ci interessa qui discutere dell’implementazione. Se Berlusconi, eccetera,
eccetera, bensì di stabilire un punto fondamentale: in quel contratto si
parlava a tutti gli italiani. Certo, si può criticare la sua forma
privatistica, come del resto l’atto in sé, svoltosi davanti alle telecamere televisive, nonché la sua natura demagogica, in qualche misura cripto-plebiscitaria. Però
ripetiamo: Berlusconi parlava a tutti gli italiani.
Invece,
per venire al punto, il Contratto di Governo “stipulato” tra
Salvini e Di Maio non parla a
tutti. I due big (si fa per dire) parlano a se stessi e a quelli che la pensano in fotocopia. Si tratta di un accordo tra due
attori politici, che viene sottoposto, per l’approvazione, nel caso
di 5 Stelle, al voto digitale dei
militanti, in quello della Lega, votato ai gazebo, da elettori e simpatizzanti (dopo l'approvazione ufficiale dei vertici del
partito...). Stesso giro, stessa musica.
Non
solo siamo davanti a un atto privatistico che riduce la politica a un rogito
notarile, ma quel che è più grave, è che diversamente dalla politica, che
dovrebbe, come ci ripetono strenuamente, tendere al bene comune, quindi parlare
a tutti, essere dunque inclusiva, il Contratto di Governo giallo-verde, è un atto che include, a voler essere
generosi, una parte delimitata dell’elettorato, quella che ha votato per Di Maio e Salvini. E gli altri? Dovranno adeguarsi. Bella democrazia.
Ora,
sui profili costituzionali di una operazione del genere - che tra l’altro istituisce un comitato permanente arbitrale, che non si vedeva dai tempi del Gran Consiglio - lasciamo la parola agli esperti. Ma, anche al profano non può sfuggire il fatto che si punta, senza
tanti complimenti, a relegare in un angolo il Parlamento, la massima
istituzione della democrazia liberale, insaccocciando tutto nel pancione di quella stessa forma-partito, fino al giorno prima additata come nemica del popolo. E quel
che più stupisce e preoccupa è il silenzio
assordante intorno a quello che può essere definito, per dirla fuori dai denti, un progetto liberticida.
Detto questo, invito i lettori a riflettere su un fatto: in Europa
occidentale, a parità, diciamo qualitativa e di anzianità delle
classi politiche, solo l’Italia rischia di ritrovarsi con un governo totus populista. Non è che Francia, Spagna, Germania, abbiano avuto meno
problemi di noi dal punto di vista delle classi politiche, eppure i populisti
hanno vinto in Italia. Evidentemente, c’è
qualcosa in noi che non funziona, come leggevamo ieri. Un alto tasso collettivo di estremismo? Può
darsi. Una cattiva metabolizzazione
della democrazia liberale? Forse.
Il vero problema però non riguarda il
“popolo” ma le élite, a partire da
quelle politiche, prive della consapevolezza
di essere tali. Di qui, il gioco al rialzo del pessimismo di facciata -
forma modernizzata dell’antico nicodemismo delle nostre classi dirigenti
- che si risolve sempre nel piangersi addosso e nel compiangere (e compiacere) l’elettore. Pertanto la lotta politica, almeno negli
ultimi venticinque anni, si è risolta
nel parlare, come si usa dire, alla pancia degli elettori. E alla
fine hanno vinto i più bravi.
I
Rajoy, i Macron, le Merkel non vellicano
i bassi istinti dell’elettorato, perché hanno piena consapevolezza del proprio ruolo. Sono politici responsabili. Va anche detto, che probabilmente, spagnoli,
francesi e tedeschi - nel senso del “popolo sovrano” - hanno
metabolizzato meglio di noi la democrazia liberale. E sanno che c’è un tempo per i sacrifici, e
un tempo per i godimenti. Ma soprattutto
non sono abituati a stendere la mano in attesa della manna pubblica. Si
rimboccano le maniche, lavorano e
producono. Di qui, il circuito virtuoso
tra élite e popolo.
Ma
allora negli Stati Uniti, dove ha vinto, come si usa dire, il populista Trump? Che cosa non ha
funzionato? Innanzitutto Trump, non si può definire un populista in senso
europeo: non ha promesso gratifiche per tutti, più semplicemente ha fatto
appello al tradizionale isolazionismo
americano e allo storico senso di
responsabilità individuale (“un uomo, un fucile, un
cavallo”) degli americani. Lo hanno votato non perché ha promesso pasti gratis a tutti, ma perché ha promesso ai ceti
medi di abbassare le tasse e mettere
tutti gli americani nelle libere condizioni
di lavorare e produrre, dal più povero al più ricco. Non un centesimo da Washington
ma solo libertà di arricchirsi e prosperare, per fare in questo modo l'America più grande (come recita il famoso slogan trumpiano). Insomma, siamo dinanzi al naturale prolungamento dell’etica del lavoro capitalista. Altro che decrescita felice e posto fisso alle elementari sotto casa.
Conclusioni?
Brevissime. Negli Usa vogliono essere lasciati liberi di lavorare e produrre. In Francia, Spagna e Germania, idem con
patate. In Italia, invece, già si sono messi in
coda per il Reddito di Cittadinanza, o misure similari.
Qual
è la lezione allora? Dove vince l’etica della responsabilità, il
populismo perde.
Carlo Gambescia