Fresco di stampa
Il
nemico ci salverà
di Teodoro Klitsche de la Grange
Nel suo nuovo libro (*) Giovanni Orsina analizza l’attuale crisi
dei regimi democratici sottolineandone la causa (principale) politica e la sua
conseguenzialità con la natura della democrazia dei moderni (cioè
post-illuminista).
Questa prende le mosse da certe promesse; la
prima, già nella dichiarazione d’indipendenza degli Stati uniti, è che ogni
individuo ha il diritto di perseguire la realizzazione della propria felicità. Tale
promessa è “connaturato alla democrazia intesa non soltanto come sistema
politico, ma come modello di società. Allo stesso tempo, però, la pretesa che
quella promessa sia mantenuta sottopone il regime democratico a tensioni
insopportabili”. Ma dato che il capitalismo è distruzione creatrice
(Schumpeter) e la modernità anche, le strutture socio-politiche che vengono
distrutte da quelle tensioni sottopongono il sistema a ripetute crisi. A
partire dalla seconda metà del secolo passato “la riaffermazione poderosa di
quella promessa, che all’inizio era stata formulata in termini altamente
politici, ha in breve tempo portato all’affacciarsi di un nuovo soggetto assai
poco adatto alla politica: il narcisista. L’affermarsi di questo tipo umano
contribuisce a far appassire cinque dimensioni fondamentali dell’agire
politico: potere, identità, tempo, ragione e conflitto”.
Dato che soddisfare del tutto il narcisista è
impossibile, le élite di governo “si sforzano di arginarlo, trasferendo il
potere dalla politica verso istituzioni economiche, giudiziarie, tecnocratiche,
spesso sovranazionali… così facendo, la politica col passare degli anni si va
rinchiudendo sempre di più in una tagliola micidiale: richieste crescenti da un
lato, strumenti sempre più deboli e inefficaci con cui soddisfarle dall’altro”.
Per cui la conseguenza, iscritta nel destino degli aggregati politici umani, è
di rivestire un’unica funzione da poter svolgere “quella del capro espiatorio…
questo marchingegno ha agito e agisce in tutte le democrazie avanzate. Il terzo
capitolo del libro, incentrato su Tangentopoli, cerca di spiegare perché in
Italia esso abbia avuto effetti ancor più dirompenti di quanto non sia accaduto
altrove. La fragilità della repubblica dei partiti, e in particolare la sua
incapacità di dotarsi di una legittimità solida, fanno sì che nella penisola il
processo di degenerazione del politico sia particolarmente grave, e possono
quindi dar conto in larga misura del collasso sistemico del 1992-1993. In quel frangente,
d’altra parte, s’ingenera nei confronti della politica un’ostilità così
profonda e violenta da apparire tutto sommato sproporzionata rispetto alle
responsabilità storiche del ceto di governo, pure notevoli, e più in generale
alle cause della crisi”.
Orsina fa derivare le contraddizioni della
democrazia moderna da Tocqueville “Perché una società fondata sulla
promessa-pretesa di piena autodeterminazione soggettiva possa funzionare nel
tempo, tuttavia, è necessario che quanti la compongono rientrino in una ben
determinata categoria antropologica, dai confini ampi ma tutt’altro che
illimitati. La democrazia, perciò, da un lato garantisce agli esseri umani
ch’essi possono essere qualsiasi cosa desiderino, teoricamente senza alcun
limite. Dall’altro però funziona unicamente se essi desiderano entro certi
limiti. Non solo. La democrazia spinge
gli individui a desiderare fuori da quei limiti, e così facendo mette
costantemente in pericolo la sopravvivenza proprio di quel tipo di cittadino
del quale non può fare a meno”; nell’attuale fase narcisistica occorre
riprendere la lezione di Tocqueville il quale “ Nel secondo volume de La democrazia in America distingue con
cura l’individualismo dall’egoismo. L’egoismo è un vizio istintivo che esiste
da sempre ed è presente in ogni cultura: «un amore appassionato e sfrenato di
se stessi, che porta l’uomo a riferire tutto soltanto a se stesso, e a
preferire sé a tutto». L’individualismo è invece un frutto specifico della
civiltà democratica, non è un «istinto cieco» ma «un sentimento ponderato e
tranquillo»” e “La specialità del narcisista consiste nel fatto che la sua
ossessione di sé è fondata su una distorsione cognitiva: l’incapacità di
percepire la propria persona e la realtà come due entità separate e autonome
l’una dall’altra” e “Il suo rapporto col mondo è interamente determinato dal
filtro di una prospettiva soggettiva non educata né maturata dal confronto. È
intellettualmente una monade, insomma, prima ancora di esserlo socialmente e
politicamente”.
Il narcisismo del cittadino post-moderno tende a
ridimensionare le citate “dimensioni” dell’agire politico: in effetti – ancor
più - le fa appassire tutte.
Anche la stessa “struttura” dello Stato borghese
che Schmitt considera uno status mixtus,
frutto della commistione dei principi di forma politica e di quelli della
borghesia, perché tende a obliterare i primi e a ridurre i secondi, anche se
s’insiste sulla dimensione universale dei diritti dell’uomo (meno su quelli del
cittadino). In questa situazione è difficile che la democrazia liberale trovi
un ubi consistam; a Constant (e ai
“vecchi” teorici del liberalismo) era chiaro il reggersi della suddetta forma
di Stato sul carattere di rappresentanza politica dei due organi fondamentali
(il Re e il Parlamento). Ma se si trascura la dimensione propriamente politica
(cioè sociale ed istituzionale) non è dato capire come l’istituzione Stato
possa applicare e tutelare i diritti (quali che siano). In fondo l’aveva ben
visto Hegel il quale sosteneva che “Lo Stato è la realtà della Libertà
concreta…Il principio degli Stati moderni ha questa immane forza e profondità:
esso fa sì che il principio della soggettività si compia fino all’estremo autonomo della particolarità
personale, e, a un tempo, lo riconduce
nell’unità sostanziale, conservando
così quest’ultima in quel principio stesso” (Lineamenti di filosofia del diritto, § 260). Al narcisista contemporaneo fa difetto il secondo movimento.
Come scrive Orsina “con la fine delle identità
collettive, è venuto meno anche il legame fra élite e popolo: il popolo non
riconosce più alle élite il diritto di decidere e guidare; le élite hanno
smesso di considerarsi responsabili nei confronti del popolo”.
In questo contesto la situazione italiana dopo i
primi decenni del secondo dopoguerra, ha dei connotati peculiari, che la
rendono più difficile da gestire di altre grandi democrazie europee, come Francia
e Germania le quali si erano date ordinamenti costituzionali efficienti e
responsabili. L’Italia no, per cui il sistema politico ha una stabilità, ma
precaria. In primo luogo perché era impossibile che il P.C.I. potesse ascendere
al potere “La presenza di quest’anomalia ha impedito alle istituzioni
repubblicane di consolidare la propria legittimità, e al conflitto politico di
organizzarsi in maniera funzionale a quel processo di legittimazione. Là dove
per consolidamento della legittimità istituzionale deve intendersi non soltanto
l’accettazione da parte degli italiani dei valori democratici considerati in
astratto, ma anche, e soprattutto, la loro adesione all’assetto che la
democrazia ha assunto in concreto in Italia. Un assetto al quale può benissimo
negare legittimità pure chi condivida appieno i principi della democrazia
liberale… L’Italia rispetta molti dei dettami della democrazia liberale, ma non
tutti”.
Quindi, ad applicare le distinzioni di Ferrero,
l’Italia dei partiti era in una situazione di “quasi-legittimità” o di
legittimità claudicante. Per cui
bastava una spinta, neppure tanto forte, per mandarla a terra.
“Il sistema politico italiano, in conclusione,
non riesce ad affermare la propria legittimità né adeguandosi al modello
occidentale di democrazia maggioritaria e competitiva, né proponendosi in
maniera convincente come un esempio di democrazia consensuale antifascista…
Alla repubblica dei partiti non restano altro che argomentazioni congiunturali:
non il richiamo esplicito e conseguente a un insieme di principi
politico-istituzionali in armonia con lo spirito del tempo – quelli che
Guglielmo Ferrero chiamava i «geni invisibili della città»”. In assenza di ciò
è costretta a reggersi su regimi “congiunturali”: la Guerra fredda (in primo
luogo), la tenuta delle istituzioni democratiche, l’accrescimento del benessere
(risultato notevolissimo conseguito). Ma quando implose il comunismo e così la
guerra fredda, e la crescita economica rallentò, esplose la crisi di Tangentopoli,
cui Orsina dedica l’ultima parte del libro, e che “legge” attraverso il
pensiero di Elias Canetti e René Girard.
L’epilogo guarda al futuro, con l’esaminare le
varie ipotesi di superamento della crisi della democrazia, verso le quali
l’autore manifesta il suo pessimismo (da condividere).
Tuttavia scrive che “La restaurazione della
tradizione e il presentarsi di una catastrofe rappresentano la seconda e la
terza ipotesi di soluzione del rompicapo democratico. Le due ipotesi sono
distinte sul piano logico ma hanno cooperato spesso su quello storico”. Cui può
aggiungersi che, come sosteneva M. Hauriou, il rinnovamento religioso era il
fondamento di ogni rinascita delle comunità (e non solo delle democrazie).
Quanto alla catastrofe, forse non c’è bisogno di
arrivare al peggio (in fondo stiamo vicini al fondo): se è vero, come già
notava Eschilo nelle Eumenidi (e è stato ripetuto da tanti) che la comunità
scopre (e rinnova) se stessa e quindi propria unità e identità unendosi contro
un (nuovo) nemico, il fatto che sia tramontato (“neutralizzato”) il principale
criterio di percezione del nemico e riconoscimento dell’amico del “secolo
breve” e cioè borghese/proletario, e ne stia sorgendo uno nuovo, può ancora
offrire qualche speranza.
Teodoro Klitsche de la Grange
(*) Giovanni
Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve
storia dell’antipolitica, Marsilio editori, Venezia 2018, pp. 198, € 17,00.
Teodoro
Klitsche de la Grange è avvocato,
giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" (
http://www.behemoth.it/ ).
Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il
salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia
della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va
lo Stato? (2009), Funzionarismo (2013).