I guai di Trump, la sfida populista e la selezione delle
élites
E se le masse non si sentissero tradite?
I
guai di Trump, per un verso dipendono
dall’uomo (un “cialtrone”, politicamente parlando, secondo Giuliano Ferrara), ma per l’altro rinviano ai ferrei meccanismi di selezione e legittimazione delle
élites e della classe dirigente che riguardano tutti i sistemi politici, in
particolare quelli democratici.
Il principale problema di Trump è il non disporre di personale politico all’altezza della situazione. Il che rimanda al reclutamento, che a sua volta rinvia al tasso di credibilità presso le élites dirigenti del programma populista. Quindi la scelta se aderirvi o no.
Il principale problema di Trump è il non disporre di personale politico all’altezza della situazione. Il che rimanda al reclutamento, che a sua volta rinvia al tasso di credibilità presso le élites dirigenti del programma populista. Quindi la scelta se aderirvi o no.
Ora, a meno che non si tenti il colpo di forza, non si può imporre ai quadri direttivi
di una società (1) un programma politico in netto contrasto con i valori e gli interessi infra-sistemici che
sono alla base dei processi di legittimazione politica, economica e sociale della élite dirigente che ci si propone sostituire. E per giunta, pretendere di condurre a termine il processo di ricambio in pochi mesi: a Ronald Reagan e Margaret Thatcher, due formidabili innovatori (altro che Trump), non bastò un decennio o poco più...
Insomma, occorre tempo. E soprattutto serve la dimostrazione, con i fatti, circa la bontà del “nuovo che avanza”. Ma come dimostrarlo, se il ciclo politico, non supera una o due legislature e i poteri dell’esecutivo limitati? E le società complesse? Si dovrebbe uscire dalla democrazia e dalla concertazione. Il che però imporrebbe l’evocazione di un’altra formula politica. Come dire, alternativa. E perciò il rischio dello scontro totale, come nella prima metà del Novecento, dai costi sociali incalcolabili.
Insomma, occorre tempo. E soprattutto serve la dimostrazione, con i fatti, circa la bontà del “nuovo che avanza”. Ma come dimostrarlo, se il ciclo politico, non supera una o due legislature e i poteri dell’esecutivo limitati? E le società complesse? Si dovrebbe uscire dalla democrazia e dalla concertazione. Il che però imporrebbe l’evocazione di un’altra formula politica. Come dire, alternativa. E perciò il rischio dello scontro totale, come nella prima metà del Novecento, dai costi sociali incalcolabili.
Qui torniamo a Trump, il cui progetto politico protezionista e decisionista,
in una società liberale e
concertazionista, non può non suscitare reazioni negative da parte della classe
dirigente. Non è una questione di
complotti, ma di “specifico sociologico”, di persistenza di valori e interessi,
istituzionalmente incarnati (2), che inevitabilmente assumono nel tempo forza
propria perché ritenuti necessari, non solo da parte delle
élite dirigenti, ma di tutti coloro che
intendono farne parte - magari senza poi riuscirvi - per
essere inclusi nei processi di selezione economica, sociale e politica.
A differenza di ogni altro regime - e qui pensiamo agli aspetti dinamici delle istituzioni politiche - il ciclo liberal-democratico implica il libero convincimento
attraverso il discorso pubblico, il voto e il legittimo consenso. Il che però non significa, che come ogni altro
sistema, non abbia la sua formula politica, in questo caso fondata sul sistema di mercato e la democrazia
rappresentativa: formula alla quale si chiede fedeltà, sul piano delle credenze
diffuse, quindi informale (qualcosa che si respira nell’aria, di democratico, insomma), per essere inclusi nei processi di selezione
sociale delle élites dirigenti. Processo di inclusione, a differenza di altre formule politiche, che si può liberamente contestare e al quale ci si può, altrettanto liberamente, sottrarre.
Trump,
come del resto i populisti europei, ripetiamo, punta invece su un'altra formula
politica: protezionista e plebiscitaria.
Il che spiega il duro conflitto in corso negli Stati Uniti, come ovunque si cerchi di imporre una formula
politica, semplificando, radicalmente anti-liberale.
Quest’ultima,
diciamo, è la cattiva notizia. La buona
è che, come hanno provato le recenti elezioni politiche europee e le proteste
pubbliche negli Usa, i valori della formula liberale sono tuttora
condivisi da un largo numero di elettori, se non addirittura dalla maggioranza
di essi. Pertanto il consenso infra-sistemico
non riguarda solo le élites, legate, come spesso si pretende, solo
dagli interessi, bensì le “masse”,
per le quali gli interessi sono una promessa racchiusa nei valori. Si chiama
fiducia.
Insomma, la gente comune “ci crede”. Ciò significa che il “sistema” liberal-democratico, nonostante tutto, gode ancora di fiducia diffusa. Il compito dei politici, probabilmente il più difficile, è di non tradirla. Riusciranno i nostri eroi? A partire da Macron?
Insomma, la gente comune “ci crede”. Ciò significa che il “sistema” liberal-democratico, nonostante tutto, gode ancora di fiducia diffusa. Il compito dei politici, probabilmente il più difficile, è di non tradirla. Riusciranno i nostri eroi? A partire da Macron?
Carlo Gambescia
(1)
Politici, intellettuali, scienziati e
professori , dirigenti e burocrati pubblici, magistrati, uomini d’affari e imprenditori, personaggi
del giornalismo, dello spettacolo, dell’intrattenimento, eccetera.
(2)
Si studia nelle stesse università, si crede negli stessi valori, si frequentano
gli stessi ambienti, si appartiene agli stessi circoli, si fanno affari
insieme, eccetera.
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