mercoledì 24 maggio 2017

L’attentato di Manchester
Islam vs consumismo, chi vincerà?




Dopo ogni attentato terroristico jihadista, ultimo quello gravissimo di Manchester, si  assiste alla stessa recita  politico-mediatica: dai titoli dei giornali alla reazione dei politici.  Che succede?  Prevale, anzi domina,  la logica sociale  della lotta alla criminalità e del musulmano che sbaglia, come un tempo si diceva dei “compagni comunisti” con il passamontagna.   
Di certo,  due catastrofiche guerre europee hanno giustamente insegnato agli europei i pericoli delle guerre ideologiche.  Come del resto il lungo periodo di pace interna ha ammorbidito gli animi e  addolcito i costumi.  Si vive, insomma,  nella e della rassicurante convinzione che il nemico prima o poi la smetterà, e che qualsiasi atto di guerra da parte nostra potrà solo complicare le cose e precipitarci in una inutile guerra simmetrica nei riguardi di un fenomeno asimmetrico come il terrorismo islamico.  Guai, insomma, a chi osi parlare di una terapia militare .     
Sicché le uniche strategie  per difenderci dal terrorismo, ogni volta riproposte, sono le crescenti  misure di polizia,  il dialogo con le comunità musulmane europee, e un aiuto tecnico, economico e militare, laddove si combatte il fenomeno jhiadista.  Infine, per una di quelle ragioni occulte, misteriose, sconfinanti nell’autodistruzione dei popoli, ragioni più o meno nobili che dovranno spiegare gli storici del XXIV secolo, ci si oppone, soprattutto a livello politico, al  controllo dei flussi migratori verso il continente europeo.
Insomma, a meno che la cadenza degli attentati non divenga giornaliera,  il cittadino europeo,  sembra essere disposto, pur di vivere in modo semi-normale,  a subire tutto il peso di uno stato di polizia. Al di là di alcuni gruppi  razzisti - che però  non vanno oltre la logica dei controlli estesi alle frontiere - la stragrande maggioranza degli europei, a partire dai militari di carriera,  non ha alcuna voglia di battersi lontano dall’Europa, né di cambiare programmi legati a uno  stile di vita, secolarizzato, più che soddisfacente,  che ruota intorno ai  processi di produzione e consumo di beni e servizi, materiali e immateriali. 
Il che facilita il ruolo della politica, dalla sinistra alla destra, nell’affrontare il terrorismo solo in termini di politica interna e di  terapia culturale. Come ben prova, sul piano dell'immaginario, la retorica politicamente infantile, ma legata a un sistema routinario di vita, quindi difficilmente sradicabile,  “dello sconfiggeremo il nemico,  andando come ogni anno  in vacanza”. 
Si potrebbe parlare, semplificando, di un razionalizzazione consumistica del nemico,  nel doppio senso 1) di sedurlo con uno  stile  vita che 2) ha sedotto gli  occidentali. Sul punto ritorneremo più avanti.  
Per ora,  se  reazione ci sarà  a livello sociale,  verrà  quando il terrorismo, intensificando la sua attività distruttiva, impedirà il normale svolgimento della vita sociale  e  l’attuazione stessa dei singoli programmi di vita: come andare al lavoro, a  un concerto, in vacanza, partire per un viaggio, spostarsi in automobile, treno, aereo,  recarsi al cinema, in biblioteca, godersi un aperitivo e una passeggiata. Difficile dire quale aspetto potrà assumere la reazione, molto dipenderà dal tasso di risentimento sociale, dai livelli di inclusione e dalla distribuzione del potere tra i diversi gruppi collettivi.  
Alcuni sostengono, come anticipato, che la razionalizzazione consumista, potrebbe estendersi, coinvolgere e convertire il nemico jihadista.  Indubbiamente,  si tratta di una sfida interessante. La secolarizzazione dei costumi è un'importante fattore di trasformazione sociale.  Per ora, tuttavia,  non sembra funzionare, almeno all’interno delle seconde generazioni di immigrati islamici.
Il vero  problema sociologico riguarda la tempistica sociale: la conversione o razionalizzazione consumista sembra essere  più lenta ( e meno efficace)  di quella religiosa.  Lo stile di vita europeo  ha impiegato circa duecento anni per radicarsi.  E può  provocare, dove la tensione religiosa è forte, crisi di rigetto. Quindi la terapia culturale ha tempi lunghi e non sempre funziona. Del resto la terapia militare , come abbiamo visto, non viene presa in alcuna considerazione. Sicché sembrano non restare che le misure di polizia e l’attesa che la terapia culturale funzioni, ossia che musulmani, semplificando,  si convertano tutti  al consumismo.   Sempre che, a suon di bombe, non siano gli occidentali a convertirsi all’Islam. In fondo, non si diceva un tempo meglio rossi che morti?  La conversione forzata o meditata,appartiene alla logica del pacifismo piuttosto che a quella della guerra civile.  La terapia culturale, mai dimenticarlo, un po' come la democrazia di massa,  è un'arma a doppio taglio, può favorire tutto e il suo contrario.   
Certo, contro l’Unione sovietica, “l’ Islam del XX secolo" (Monnerot),  alla fine vinsero i frigoriferi. Con l’islamismo, quello autentico,  del XXI secolo, potrebbe però essere più dura.      

Carlo Gambescia