Istat: più vecchi e culle vuote
E se fosse il nostro ottimo sociale?
Non
ci “infileremo” in una discussione sui dati
demografici diffusi ieri dall’Istat e oggi rilanciati dai mass media (*). Quel che
stiamo per proporre agli amici lettori è un’analisi anti-mainstream del fenomeno, né pessimista, né ottimista. Proveremo a ragionare non tanto sui
dati odierni, che nulla tolgono nulla aggiungono, quanto sulle tendenze di fondo.
Si
invecchia di più: bene, è segno che la qualità della vita e dell’assistenza
medica sono più che buone. Inoltre, poiché la fruizione dei servizi medici è
legata al tasso di istruzione e di informazione ( per dire: laureati e
diplomati vi ricorrono di più rispetto a chi
ha un titolo di studio inferiore) la
maggiore cura della propria persona e salute,
indica che la società si è trasformata culturalmente, e in meglio.
Si
fanno meno figli: meglio così, la società si adegua alle potenzialità economiche (attuali) del sistema, altrimenti, se i giovani fossero troppi, semplificando, non ce ne sarebbe per tutti. E, di riflesso, crescerebbe il pericolo della voice e in prospettiva di rotture rivoluzionarie. Ad
esempio, semplificando di nuovo, dietro il ’68 ( e il terrorismo)
c’è la linea di intersezione tra il baby boom del dopoguerra e la difficile congiuntura economica a cavallo degli anni Sessanta e Settanta.
Inoltre, il fatto, che molti giovani ritardino
l’ingresso nel mondo del lavoro e nel mettere figli al mondo, indica che le famiglie di provenienza possono permettersi di mantenerli. Ciò comprova che la situazione economica, grazie anche al
rilevante inserimento della donna nel mondo del lavoro ( e quindi alla
disponibilità di più entrate, incluse quelle delle “nonne” che vivono più a lungo)
e all’alto tasso di risparmio per famiglia (che non accenna scendere, almeno in assoluto), e al possesso diffuso di case di proprietà (e altri beni immobili), comprova, dicevamo, che la situazione economica risulta ben lontana dall’essere
catastrofica, come certo “piagnonismo” nazionale la dipinge.
Insomma, non è vero che "fare" meno figli, sia un
fattore negativo. Può esserlo sul piano morale e religioso. Ma sono scelte etiche, di principio, infalsificabili. Così come "fare figli" può essere un fattore positivo quando
una società, economicamente in espansione, ha
necessità di forza lavoro crescente. Situazione che però, almeno per ora, non riguarda l’Italia, come prova la vita stentata del
nostro Pil. E, tra l’altro, la dice lunga, sulla reale necessità di forza lavoro importata dall’esterno. Il che, ovviamente, non significa chiusura nel riguardi dell’accoglienza
umanitaria. Si dovrebbe solo spiegare ai cittadini le cose come stanno: che,
per ora, i “migranti”, non essendo il portato di un’economia dell’offerta e
della domanda, non troveranno lavoro in
Italia, ma che dobbiamo accoglierli perché così proclama la Carta dell'Onu, la Costituzione, il Vangelo eccetera. Certo, un esercito di riserva (anche solo come minaccia) può abbassare il costo del lavoro. Ma questa è un’altra
storia, che vale anche per il lavoro femminile.
Dal
punto di vista sociologico, le società
tendono verso un equilibrio naturale, un
ottimo, al di là del bene e del male ( nel senso del minimo del massimo, o minimax, perseguibile in un dato momento), un punto di equilibrio che può non corrispondere all’ottimo etico (secondo le varie impostazioni morali). In questo momento, il calo
della natalità, che spiccatamente abbraccia gli ultimi due
decenni, indica che questo, per ora, è il nostro ottimo sociale: molti vecchi, pochi figli, pochi giovani, e per giunta a casa.
Nel
lungo periodo il calo demografico può provocare, come si legge, la “scomparsa
degli italiani”? Se la stagnazione produttiva, dovesse diventare
strutturale e al tempo stesso le riserve economiche esaurirsi, il calo
demografico potrebbe acuirsi. Di conseguenza, i livelli di ottimo e di resilienza sociali
potrebbero scendere ulteriormente per adeguarsi a un ottimo economico ( a misura di Pil) in picchiata. Ancora meno italiani, insomma. Il che però, non significa più “stranieri”, dal momento che il tasso di natalità degli immigrati,
come è noto, tempo una generazione (anche meno), si adegua al trend generale.
Si
può fare qualcosa? L’idea di una "cultura
delle nascite" promossa attraverso policy, ossia incentivi pubblici, rientra nel quadro di un
assistenzialismo etico dai pericolosi
contraccolpi fiscali e burocratici. Dal momento che se
vi fosse risposta positiva, le maggiori nascite rappresenterebbero un
ottimo morale senza alcuna rispondenza sui piani dell’ottimo sociale ed
economico. Mentre se la risposta fosse negativa,
un falso senso di impotenza morale potrebbe diffondersi, non solo tra i policy
maker, allontanando le prospettive di ripresa.
Come
si vede, un bel rompicapo. Probabilmente, si potrebbe lasciare che le società fissino da sole il proprio ottimo. Il che però va a collidere con le ragioni del consenso politico. Che è costruito artificialmente. Ciò significa, e concludiamo, che pure l'ottimo politico non sempre corrisponde all'ottimo sociale. Ma questa è un'altra storia...
Carlo Gambescia