I dazi di Trump
Il protezionismo ha un lato comico, se si vuole addirittura grottesco, come
ogni forma di interazione sociale spinta all’eccesso. Si pensi alle anticipazioni del WSJ, riportate dalle agenzie di stampa, sui dazi che Trump vorrebbe imporre su alcuni marchi europei. Per accontentare, si
dice, i produttori americani di manzo, delusi dal non rispetto Ue di un trattato del 2009, che apriva al manzo Usa non trattato
con ormoni (*).
Comunque stiano le cose, si pensi, dicevamo,
ai milioni di americani che dovranno rinunciare all’acquisto di una vespa, a non bere l’acqua San Pellegrino e sbocconcellare il formaggio Roquefort.
Mentre noi invece continueremo a
mangiare il manzo, presuntivamente, a
chilometro zero, sovvenzionato dall’Ue con i nostri soldi. Che buffonata.
Purtroppo, la verità è
che la “qualità” non sempre la fanno le merci, come invece auspica il Presidente Gentiloni, facendo il verso ad Alice nel Paese delle Meraviglie. Magari. Invece, spesso la stabiliscono, o meglio la contrattano politicamente, governi e
produttori: si chiamano coalizioni redistributive. E si sviluppano sotto l’impulso del ciclo elettorale democratico, regolato dal voto di scambio. Ciò non significa che i dittatori non abbiamo tali problemi, di regola, condizionati, ancora più pesantemente, dal tasso di demagogia e autoritarismo che innerva le dittature. Regimi, mai dimenticarlo, che non sono l'antitesi della democrazia, ma il prolungamento distorto in chiave plebiscitaria di quel culto della volontà generale, celebrata da Rousseau, radicato nella democrazia tout court, paventato da Aristotele e Tocqueville.
Tornando sul punto, il libero mercato si muove in un quadro di regole. Le regole sono oggetto contrattazione. E quanto più le regole diventano vincolanti, per accontentare i gruppi di pressione politici ed economici più forti, tanto più ci si allontana dal libero (o quasi) mercato.
Tornando sul punto, il libero mercato si muove in un quadro di regole. Le regole sono oggetto contrattazione. E quanto più le regole diventano vincolanti, per accontentare i gruppi di pressione politici ed economici più forti, tanto più ci si allontana dal libero (o quasi) mercato.
Giusto? Sbagliato?
Se il mondo fosse regolato da
economie chiuse, autosufficienti, il commercio e gli scambi non avrebbero alcuna ragione di essere. In realtà, però non è così: la moderna
economia di mercato incidendo su regole millenarie, contraddistinte, dal culto dell’autarchia, innescò una
rivoluzione che, in chiave scalare, ha finito per mettere tutti in
contatto con tutti, persone e beni. E i
risultati, innegabilmente positivi, sono sotto i nostri occhi.
In qualche misura,
il protezionismo è un riflesso carnivoro di tipo arcaico, mentre il
libero mercato è un esperimento moderno, che pur avendo poche centinaia di anni, ha decisamente migliorato le nostre esistenze, dopo secoli e secoli di povertà, malattie e altri stenti. Che poi il protezionismo, modernamente reintepretato, abbia svolto un ruolo fondamentale all’interno
della modernità, come dire, capitalistica, favorendo un processo di
accumulazione di risorse poi liberate dal mercato, è un dato di fatto. Ma non è questa la situazione - pre-decollo industriale - in cui versa l’America di Trump. Il protezionismo evocato dal presidente Usa, rimanda
al ciclo elettorale democratico, con evidenti venature demagogiche: il
dover dare una qualche risposta, anche sbagliata, insomma “costi quel che costi”, a elettori emotivamente sequestrati. Il che non farebbe dormire sonni tranquilli al flemmatico Aristotele come all'irrequieto Tocqueville.
Ecco perché il protezionismo di Trump ha un lato
comico, addirittura grottesco. Ricorda quei decadenti aristocratici, usciti dai sepolcri dopo la caduta di Napoleone, che pretendevano di restaurare integralmente il mondo pre-1789, anche nell'abbigliamento. E come? Indossando la settecentesca parrucca
incipriata. Che a dire il vero,
secondo alcuni pettegoli, il fulvo
Trump, sotto l’aspetto di un ultramoderno parrucchino, sembra non disdegnare. Tra una bevuta e l’altra di acqua. San Pellegrino, of
course. Lui non vive in una roulotte.
Carlo
Gambescia