venerdì 31 marzo 2017

I dazi di Trump
Il lato grottesco del protezionismo



Il protezionismo ha  un lato comico, se si vuole addirittura  grottesco, come ogni forma  di interazione sociale  spinta all’eccesso.  Si pensi alle anticipazioni del WSJ, riportate dalle agenzie di stampa, sui dazi che Trump vorrebbe imporre su alcuni marchi europei.  Per accontentare, si dice, i produttori americani di  manzo, delusi dal non rispetto  Ue di un trattato del  2009, che apriva al manzo Usa non trattato con ormoni  (*).
Comunque stiano le cose, si pensi, dicevamo,  ai milioni di   americani che  dovranno rinunciare all’acquisto di una vespa,  a non bere l’acqua San Pellegrino e sbocconcellare il formaggio Roquefort. Mentre noi invece continueremo  a mangiare il manzo, presuntivamente,  a chilometro zero, sovvenzionato dall’Ue con i nostri soldi. Che buffonata.
Purtroppo, la verità  è che la “qualità” non sempre la fanno le merci, come invece auspica il Presidente Gentiloni,  facendo il verso ad  Alice nel Paese delle Meraviglie. Magari.  Invece, spesso  la stabiliscono, o meglio la contrattano politicamente,  governi e produttori:  si chiamano coalizioni redistributive. E si sviluppano  sotto l’impulso del ciclo elettorale democratico, regolato dal voto di scambio.  Ciò non significa che i dittatori non abbiamo tali problemi,  di regola, condizionati, ancora più pesantemente, dal tasso di demagogia e autoritarismo  che innerva le dittature.  Regimi,  mai dimenticarlo, che non sono l'antitesi della democrazia, ma il prolungamento distorto in chiave plebiscitaria di quel culto della volontà generale, celebrata da Rousseau, radicato nella democrazia tout court,  paventato da Aristotele e Tocqueville.  
Tornando sul punto, il libero mercato si muove in un quadro di regole. Le regole sono oggetto contrattazione. E quanto più le regole diventano vincolanti, per accontentare i gruppi di pressione politici ed economici più forti, tanto  più ci si allontana dal libero (o quasi) mercato.
Giusto? Sbagliato?  Se il mondo fosse  regolato da economie chiuse, autosufficienti, il commercio e gli scambi  non avrebbero alcuna ragione di essere.   In realtà, però non è così: la moderna economia di mercato  incidendo su  regole millenarie, contraddistinte,  dal culto dell’autarchia, innescò una rivoluzione che, in chiave scalare,  ha finito per  mettere  tutti in contatto con tutti,  persone e beni.  E i risultati, innegabilmente positivi, sono sotto i nostri occhi.
In qualche misura,  il protezionismo  è un riflesso carnivoro di tipo arcaico,  mentre il libero mercato è un esperimento moderno,  che pur avendo poche centinaia di anni,   ha decisamente migliorato le nostre esistenze, dopo secoli e secoli di povertà, malattie e altri stenti. Che poi il protezionismo, modernamente reintepretato,  abbia svolto un ruolo fondamentale  all’interno della modernità, come dire, capitalistica,  favorendo un processo di accumulazione di risorse poi liberate dal mercato,  è un dato di  fatto.  Ma non è questa la situazione -   pre-decollo industriale -   in cui  versa l’America di Trump. Il protezionismo evocato dal presidente Usa, rimanda al ciclo elettorale democratico, con evidenti venature demagogiche:  il dover dare una qualche risposta, anche sbagliata, insomma “costi quel che costi”, a elettori emotivamente sequestrati. Il che non farebbe dormire sonni tranquilli al flemmatico  Aristotele come  all'irrequieto Tocqueville.  
Ecco perché il protezionismo di Trump ha un lato comico, addirittura grottesco. Ricorda  quei decadenti aristocratici, usciti dai sepolcri dopo la caduta di Napoleone, che pretendevano di restaurare integralmente il mondo pre-1789, anche nell'abbigliamento.  E come?  Indossando la settecentesca  parrucca  incipriata.   Che a dire il vero, secondo alcuni pettegoli,  il fulvo Trump, sotto l’aspetto di un ultramoderno parrucchino,  sembra non disdegnare.  Tra una bevuta e l’altra di acqua. San Pellegrino, of course.  Lui non vive in una roulotte.  

Carlo Gambescia