La polemica sulle Ong e lo stato (pessimo) del discorso pubblico
“Signora mia, è tutto un magna magna…”
Osservazione sociologica diciamo di base, molto terra terra. I
lettori desiderano sapere quale può essere la reazione delle gente comune
all’ultima polemica tra magistratura e partiti sulle
Ong? Presto detto. Qualunquismo a ruota libera: “Signora mia, è tutto un magna magna…” , “Sono tutti
uguali!”, “Troppi
partiti!”. Oppure radicalizzazione: “ Magistrati irresponsabili complici
della destra…”, “Sinistra e
Ong contro l’Italia”. E così via.
Ecco
lo stato attuale del discorso o dibattito pubblico in Italia: lanciare e rilanciarsi palle di merda
(pardon), di regola imbottite di mezze verità e/o falsità, che finiscono per
sporcare tutto e tutti, nonché ignorare i problemi fondamentali, per farsi belli agli occhi del popolo e captarne la volubile benevolenza. Come, ad esempio, nel caso della polemica sulle Ong:
dove invece di recuperare il controllo militare della Libia, per impedire che continuino a partire dalle sue coste i famigerati barconi dei disperati, si
discute sul chi o sul come recuperarli
in mare.
È
sempre stato così? Qui l'argomentazione non può non farsi teorica, più affilata. Quindi attenzione.
Il discorso pubblico è il farmaco della democrazia liberale che però può trasformarsi nel veleno delle democrazia di massa. Per usare una metafora, l’idea di sovranità del popolo, è un dono dei moderni, che come per l’uso di certe miracolose medicine, può uccidere o salvare il paziente in ragione del dosaggio.
Il discorso pubblico è il farmaco della democrazia liberale che però può trasformarsi nel veleno delle democrazia di massa. Per usare una metafora, l’idea di sovranità del popolo, è un dono dei moderni, che come per l’uso di certe miracolose medicine, può uccidere o salvare il paziente in ragione del dosaggio.
Quanto
più le democrazie, in termini di suffragio, da censitarie, chiuse, si sono trasformate in
universali, aperte, tanto più è diventato difficile filtrare non
tanto i contenuti, come tali, quanto le reazioni ai contenuti, via via sempre
più di natura emozionale a causa della
diffusione di un linguaggio politico, sempre più semplificato,
che si imponeva (e impone) di conquistare il voto
di strati di popolazione sempre più larghi ed emotivamente labili. E qui la psicologia delle folle di Tarde e Le Bon aveva visto lungo.
Pertanto,
per venire all' oggi, i Social
facilitano, ma solo tecnicamente, dall'esterno, il suicidio della democrazia liberale, perché
contribuiscono alla inevitabile banalizzazione del discorso pubblico. Ciò
significa, tra l’altro, che divieti e regolamentazioni non
servirebbero a nulla, perché la logica dissolutiva è interna al processo di
semplificazione del messaggio, racchiuso
nella logica sociologicamente espansiva della democrazia di massa.
Ciò
non implica da parte nostra l’ idealizzazione dei sistemi politici
pre-democratici, dove, la logica espansiva di cui sopra, riguardava, al contrario, l’intensificazione dell’oscurità
del linguaggio politico, appannaggio di élites separate dal resto della società, che grazie alla auto-sacralizzazione,
fortemente simbolica del potere, anche sul piano linguistico, imponevano una crescente
divisione sociale tra dibattito
pubblico, praticamente inesistente, se non in termini di splendore e pompa dei poteri reale e
aristocratico, e il dibattito privato interno alle élites dirigenti, politiche e religiose, quindi doverosamente criptico, secondo la sistematica degli arcana imperii.
Pertanto,
quando oggi, polemicamente, si
discute della crescente separazione tra élites e popolo, si parla veramente a
sproposito oppure con finalità demagogiche per instaurare un potere assoluto, ovviamente di pochi, ma in nome, retoricamente, anzi religiosamente, del popolo. Dal momento che il vero processo in atto, come prova la
pessima qualità del dibattito pubblico (che non riguarda solo l’Italia: in Francia potrebbe vincere il linguaggio intestinale della Le Pen), non
concerne la separazione, ma l’accomunamento,
diremmo confuso, tra le élites e il popolo, per le ragioni, già ricordate, legate alla dinamica interna della democrazia.
Altro punto interessante. All’inizio
dell’allargamento del suffragio, le classi dirigenti democratiche (piuttosto
che liberali in senso stretto, o almeno non tutte) confidavano nell’istruzione e nella possibilità, attraverso il ciclo
scolastico e l’educazione civica, di
formare cittadini se non perfetti, migliori. In realtà, in una società di
massa, il messaggio “scolastico” e
civico non può che essere
semplificato, proprio per raggiungere tutti, come avviene per l’informazione
politica. E la mezza cultura, frammista alla labilità psicologica delle folle emozionali, può provocare
più danni della totale incultura: cosa oggi sotto gli occhi di tutti, o comunque di chiunque non abbia paura di osservare e giudicare la realtà senza paraocchi.
Purtroppo, siamo messi male. Occorrerebbe senso di
responsabilità. Dote che può essere di pochi, frutto di studi, educazione elitaria, spirito di corpo. L’esatto contrario dell’ educazione democratica.
Sicché, più il linguaggio si semplifica,
più le élites si involgariscono, credendo di cavarsela a buon mercato, più il popolo si convince di essere onnipotente, più diviene ghiotta preda di
demagoghi altrettanto volgari. E così il cerchio si chiude. Altro che la separazione tra élites e popolo...
Come spezzarlo? Come uscirne? Servirebbe una società democratica ma con un cuore aristocratico. Dove trovarla? Una parola.
Carlo Gambescia