giovedì 27 aprile 2017

Sul basso numero di laureati in Italia 
Perché stracciarsi le vesti?


Non ci interessa il dato statistico  in sé (l’aumento o la diminuzione del numero di laureati), quanto  la correlazione, per molti scontata,  tra l’ alto numero dei  laureati  e le sorti magnifiche e progressive delle nostre  società.  Le cose non stanno esattamente così. Quindi perché stracciarsi le vesti? Cerchiamo invece di capire.  
In primo luogo,   il Novecento,  il secolo più istruito della storia umana e dell’università di  massa,  rappresenta,  a detta di Sorokin e Bouthoul  (massimi studiosi  di sociologia comparata della guerra), il più bellicoso da Adamo ed Eva.  Ciò, per contro, non significa che l’assenza di istruzione sia un fattore di pacificazione: la famigerata  "santa ignoranza" dei nemici della modernità.   Ma soltanto  che  le guerre attraversano, purtroppo,  l’intera storia umana e che  di conseguenza le cause della pace  e della guerra vanno ricercate altrove. E non  nella statistica delle persone  laureate.   
In secondo luogo,  su queste erronee  basi (istruzione = pacificazione), la conquista di un titolo di studio superiore -  quindi non solo la possibilità di perseguirlo -  è comunque diventata  la bandiera delle forze progressiste, aiutate nel compito  da una sociologia  a poco a poco  trasformatasi in scienza ausiliaria del welfare state.  Sicché, il dibattito -  basti guardare i titoli dei giornali di oggi  -  ha assunto tinte politiche e propagandistiche, determinando, di riflesso, la crescita smisurata di aspettative messianiche  nell’istruzione di massa.
In terzo luogo,  il raccordo tra mondo del lavoro e  “fabbricazione dei titoli sociali” non funziona (e non può funzionare). E per quale ragione?  Per l'esistenza di una sfasatura temporale tra i processi di innovazione (velocissimi e impetuosi) e la formazione scolastica e universitaria (più lenta e sedimentata).  Si tratta di un fattore strutturale, che riguarda in particolare le società moderne, al quale non c'è rimedio, come ha mostrato la sociologia storica di Braudel.
In quarto luogo, nonostante l’accento messo sulla meritocrazia,  più della metà dei posti di lavoro (non solo in Italia)  - parliamo di linee tendenza, che variano scalarmente da società a società - viene assegnata su basi fiduciarie (parentela, amicizia, conoscenze).  Fenomeno che, dove predomina l’economia pubblica, dà luogo a  clientelismo e corruzione.  In qualche misura, come insegna la prossemica applicata alla sociologia,   la meritocrazia  perde ai punti con il legame sociale. E anche questo è un fattore strutturale, che  riguarda la società in quanto tale (non solo quella moderna, insomma):  l’uomo al  suo“simile lontano” preferirà sempre il suo “simile vicino”.
Che fare? Niente.  Lasciare che la società -  quindi gli individui -  sulla base della propria tempistica invisibile, trovi il suo equilibrio visibile.  Non è una questione di cifre ( o comunque non solo).  Esistono, semplificando,  un utile della  società, fissato al suo interno dalla società stessa,  e un utile per la società fissato dall’esterno, seguendo criteri extra-sociali.  Sicché  dal punto di vista politico, se proprio dobbiamo dare alcune indicazioni,  il primo è il criterio liberale, il secondo socialista.  E per oggi, non aggiungiamo altro.

Carlo Gambescia