Sul basso numero di laureati in Italia
Perché stracciarsi le vesti?
Non
ci interessa il dato statistico in sé
(l’aumento o la diminuzione del numero di laureati), quanto la correlazione, per molti scontata, tra l’ alto numero dei laureati
e le sorti magnifiche e progressive delle nostre società. Le cose non stanno
esattamente così. Quindi perché stracciarsi le vesti? Cerchiamo invece di capire.
In
primo luogo, il Novecento, il secolo più istruito della storia umana
e dell’università di massa, rappresenta, a detta di Sorokin e Bouthoul (massimi studiosi di sociologia comparata della guerra), il più bellicoso da Adamo ed Eva. Ciò, per
contro, non significa che l’assenza di istruzione sia un fattore di pacificazione: la famigerata "santa ignoranza" dei nemici della modernità. Ma
soltanto che le guerre attraversano, purtroppo, l’intera
storia umana e che di conseguenza le
cause della pace e della guerra vanno ricercate
altrove. E non nella statistica delle persone laureate.
In
secondo luogo, su queste erronee basi (istruzione = pacificazione), la conquista di un titolo di
studio superiore - quindi non solo la
possibilità di perseguirlo - è comunque diventata la bandiera delle forze progressiste, aiutate nel compito da una sociologia a poco a poco trasformatasi in scienza
ausiliaria del welfare state. Sicché, il dibattito - basti guardare i titoli dei giornali di oggi - ha assunto tinte politiche e propagandistiche, determinando, di riflesso, la crescita smisurata di aspettative messianiche nell’istruzione
di massa.
In
terzo luogo, il raccordo tra mondo del lavoro e “fabbricazione dei titoli
sociali” non funziona (e non può funzionare). E per quale ragione? Per l'esistenza di una sfasatura temporale tra
i processi di innovazione (velocissimi e impetuosi) e la formazione scolastica e universitaria (più lenta e sedimentata). Si tratta di un
fattore strutturale, che riguarda in particolare le società moderne, al quale non c'è rimedio,
come ha mostrato la sociologia storica di Braudel.
In
quarto luogo,
nonostante l’accento messo sulla meritocrazia, più della metà dei posti di lavoro (non solo
in Italia) - parliamo di linee tendenza, che variano scalarmente da società a società - viene assegnata su basi fiduciarie
(parentela, amicizia, conoscenze). Fenomeno
che, dove predomina l’economia pubblica, dà luogo a clientelismo e corruzione. In qualche misura, come insegna la prossemica
applicata alla sociologia, la meritocrazia perde ai punti con il legame sociale. E anche
questo è un fattore strutturale, che riguarda la società in quanto tale
(non solo quella moderna, insomma): l’uomo
al suo“simile lontano” preferirà sempre
il suo “simile vicino”.
Che fare? Niente. Lasciare che la
società - quindi gli individui - sulla base della propria tempistica invisibile, trovi il suo equilibrio visibile. Non è una questione di cifre ( o comunque non solo). Esistono, semplificando, un utile della società, fissato al suo interno dalla società
stessa, e un utile per la società
fissato dall’esterno, seguendo criteri extra-sociali. Sicché dal punto di vista
politico, se proprio dobbiamo dare alcune indicazioni, il primo è il criterio liberale, il secondo
socialista. E per oggi, non aggiungiamo altro.
Carlo
Gambescia