La scomparsa di Zygmunt Bauman
Meglio rossi che morti…
Piccola
premessa. A differenza della fisica, la sociologia non ha mai trovato il
suo Newton né il suo Einstein: il primo diede alla fisica il suo assetto
classico, il secondo la rivoluzionò. Ma con entrambi, ancora oggi, i fisici
devono confrontarsi.
Invece nelle scienze sociali, visto che l’uomo non può
essere studiato in vitro, le cose sono andate diversamente.
Certo, nei manuali, si parla di fondatori e classici. Ma resta il fatto che l’
impossibilità di parlare di una fisica di sinistra o di destra, non vale per la
sociologia. Ad esempio, Pareto di solito è messo tra i conservatori, Adorno tra
i progressisti, e così via. Inoltre, per alcuni studiosi la sociologia deve
indagare l’ordine sociale, per altri invece il progresso e le rivoluzione. E in
genere i primi (pochi e tremebondi) stanno a destra, mentre i secondi (più
baldanzosi e numerosi) a sinistra.
Ciò spiega anche la difficoltà per la sociologia di
trasformarsi in scienza “normale”, capace di studiare ordine e progresso
insieme, stabilendo regolarità o costanti sociali, come auspicava
Gianfranco Miglio. Ma chiarisce anche un’altra cosa: in assenza di padri sicuri
e metodi certi la sociologia è periodicamente costretta a scoprirne di nuovi.
E’ vittima del complesso del trovatello: crede di riconoscere in ogni adulto il
padre naturale. E qui, sarebbe lungo, ricordare i protagonisti delle mode
sociologiche, non solo italiane...
Il che però spiega perché Zygmunt Bauman,
scomparso ieri alla veneranda età di novantuno anni, sia riuscito
a guadagnare quella popolarità che gli ha permesso di restare negli ultimi anni
sulla cresta dell’onda sociologica come una specie di surfista (e padre
putativo del trovatello di cui sopra ) della società liquida (e sociologia), da
lui teorizzata.
Zygmunt Bauman, professore emerito di sociologia
nelle Università di Varsavia e Leeds, città quest’ultima dove risiedeva e
insegnava dal 1971. Polacco di famiglia ebraica, nel 1968 venne messo
all’indice dall’autorità comuniste, dopo essere sfuggito trent’anni prima alle persecuzioni
naziste, per poi tornare a Varsavia nel 1945, al seguito delle armate
sovietiche, sembra addirittura, secondo la testimonianza di Franco Ferrarotti,
come agente del KGB (*). Un sociologo dalle profonde radici
comuniste. Mai dimenticare, infatti, che la prima opera di Bauman
tradotta in italiano, dalla casa editrice del Pci, Editori Riuniti, anno di
grazia 1971, fu il suo manuale Lineamenti
di una sociologia marxista.
Bauman odiava il capitalismo.
Nell’ aletta editoriale di uno dei suoi libri, l’ultimo da
noi letto (poi ci siamo arresi): Vita
liquida (Laterza 2006), in contro copertina è
definito “uno dei più noti e influenti pensatori del mondo”. Meritava di
esserlo? Forse“ avrebbe potuto”... Dal momento che a Bauman
dobbiamo uno dei testi più interessanti sulla Shoah scritto negli anni
Novanta: Modernità e Olocausto (il Mulino
1992). Un libro che andrebbe letto e studiato nelle scuole: dove si mostra come
l’immane tragedia non fu soltanto opera di folli criminali, ma anche effetto di
quell’ oggettiva “spersonalizzazione”, o burocratizzazione, degli individui,
sempre possibile, nella “nostra società razionale moderna”.
In realtà, Bauman, come vedremo, non ce l'ha fatta. Anche
perché non si combatte il costruttivismo burocratico con dosi massicce di altro
costruttivismo burocratico. Bauman scorgeva il problema ma non la soluzione, se
non in dosi massicce di welfarismo, come vena dolce, ma burocratica, del
post-comunismo.
Insomma, mai confondere la fama con il valore. Si pensi
alla sua invasiva produzione sulla “società liquida”: decine e decine di
volumi, dove si ripetono sempre le stesse cose. Si potrebbe parlare
di ricorrenti variazioni sullo stesso tema, già sviluppate in Modernità
liquida (Laterza 2000): libro che apre alla serie, dove Bauman
sostiene che la modernità “solida”, del lavoro di fabbrica, dello stato
sociale, dei sindacati e dei partiti, avrebbe ceduto il passo alla modernità
“liquida”: una nuova reincarnazione del moderno, imposta dai processi di
globalizzazione, fondata sul lavoro flessibile, l’antipolitica e la fine di
ogni progetto riformista e rivoluzionario. Se ieri esistevano punti di
riferimento solidi (Chiesa, Stato, Partito, Impresa, Famiglia, eccetera), oggi
si vivrebbe in uno spazio “acquatico”, segnato dall’invisibile e inarrestabile
fluire di informazioni, mode e denaro. La cui “liquidità” non consente più alle
persone di ricoprire ruoli sociali stabili (come cittadino, lavoratore,
genitore, eccetera).
Capito? Stessa solfa, libro dopo libro. Sicché, tutto
il resto, per dirla con Franco Califano era ed è noia.
Eccetto che per il lettore anticapitalista. Non solo di
sinistra... Bauman, infatti, era ed è letto anche dalla destra estrema,
neofascista. Per la serie, quando gli estremi si toccano.
Al di là dell’antico odio del comunista, per tutto ciò che
“maleodora” di capitale, si tratta di una tesi, già di per sé, non
freschissima, che attinge alla classica dicotomia tönniesiana tra
Comunità/Società: tra legami caldi (comunitari) e freddi (contrattualistici).
Che Bauman attualizza alla luce dei processi di globalizzazione. Di qui il
successo editoriale (il global e antiglobal sono
argomenti che “tirano”). Hanno fatto il resto: il fervore degli ambienti
accademici, favorito dal complesso del trovatello, di cui sopra; il riflesso
nascosto ma carnivoro del comunista mai pentito, che piace alla gente che
piace; l’attenzione di un pubblico medio, che di storia sa poco o
punto, facilitata anche dal fatto che il sociologo Bauman, a
differenza di tanti suoi colleghi, sapendo tenere le penna in mano,
affabulava.
Però scrivere con eleganza, spesso non basta, come nel caso
di Vita Liquida, testo, che provocò in noi il rigetto: un
disorganico assemblaggio di saggi differenti. Bauman stesso nell’Introduzione,
pudicamente, parla di “raccolta di intuizioni” . Ma la questione è appunto
questa: le intuizioni (sette come i capitoli) non bastano per fare un libro. E,
a maggior ragione, quando nulla tolgono e nulla aggiungono. Parlare di “vita
liquida” invece di “società liquida”, come recita anche il titolo in inglese, è
un gioco di parole (editoriale?). Temi come l’ “Individuo sotto assedio”
(capitolo 1), la “Cultura: ribelle e ingestibile” (capitolo 3), “Il consumatore
nella società liquido-moderna” (capitolo 5), e le stesse riflessioni sulla
Arendt e Adorno, mal rifuse, e “appiccicate” in fondo al volume a mo’ di
conclusione (capitolo 7), sono già sviluppati a sufficienza altrove. E altri
come “Da martire a eroe, da eroe a celebrità” (capitolo 2), “Rifugiarsi nel
vaso di Pandora (capitolo 4), e “Imparare a camminare sulle sabbie mobili”
(capitoli 6), già accennati in altre sedi… Lasciamo al lettore perspicace, che
avrà già mangiato la foglia, il piacere di scoprire dove...
Paradossalmente, Vita liquida, va però letto.
Perché? Il testo, malgrado la disorganicità, resta una specie di antologia
del déja vu, che consente perciò di fare una rapida carrellata
sui luoghi comuni della “liquidità" baumaniana. In realtà, il vero
problema è che Bauman finisce per opporre alla società liquida una sociologia
altrettanto liquida, priva di riferimenti “solidi”, se non l’anticapitalismo di
antica matrice marxista. Un’ ambiguità che affiora quando propone come
via d’uscita, l’educazione permanente e la maggiore partecipazione sociale e
politica dei cittadini. Il che non è uno scherzo. Soprattutto se non si indica
in nome di quali valori “mobilitare”. E non potrebbe non essere così: dal
momento che, come poi rileva, “i valori non sono né veri né falsi - possono
solo essere accettati e rifiutati”. Di più: “nessuno può dimostrare o confutare
la ‘verità’ di un valore”. Bauman preferisce così ripiegare sul solo “impegno”,
morale e personale, nei riguardi dell’uomo e di coloro che soffrono. Per farla
breve, propone una “globalizzazione morale planetaria”. Idea nobilissima, ma a
dire il vero, per usare la sua stessa terminologia, molto “liquida”… A
quali istituzioni ricorrere? Su quali forze spirituali contare? Chi aiutare
subito? Chi è ci è vicino? O chi ci è lontano? Come aiutare “tutti” quelli che "soffrono"? Basterà stanziare una quota del Pil? O servono subito atti concreti?
Magari, favorire il volontariato? Ma come? Sono proposte, come si diceva
un tempo, da “compagno di strada” o da “utile idiota”. Si vola alto, per poi atterrare in modo assai brusco. Perché per trasporre in politica, o "implementare", come dicono i burocrati, certe misure platonico-hegeliane, non si può, inevitabilmente, non incorrere nel costruttivismo. E di quello duro. Se
in fondo al cammino teorico dei Negri, degli Žižek, dei Badiou ci sono la rivoluzione mondiale e il "comitato di salute pubblica, in fondo a
quello di Bauman, c'è il welfare (solido) mondiale... Frutto, in realtà, di quello
stesso meccanismo, alla base dell'Olocausto, ben individuato, ma presto
dimenticato, proprio da Bauman. Si legga a questo proposito (sul potente ruolo
della macchina burocratica) il bel libro di Aly Goetz , Lo stato sociale di Hitler (Einaudi 2007).
Purtroppo, l'ideologia uccide l'intelligenza degli eventi.
Quel che resta curioso della sua fortuna editoriale
(non solo) italiana, è che a favorirla sono stati gli ultimi dinosauri
della sociologia post-marxista, post-coloniale, post-visuale, post-tutto,
abbarbicati alle cattedre e nostalgici della rivoluzione. I quali però
non hanno mai capito che il messaggio baumaniano era ed è più in
sintonia con la sociologia dell’ordine che del progresso (e della rivoluzione):
quella filosofia sociale che inizia e finisce all'insegna del meglio rossi che
morti: della sicurezza (o dell' ordine) a tutti i costi. L’ “uomo
liquido”, come notava Bauman, vuole sicurezza e sarebbe disposto ( ma questo
non lo diceva) a rinunciare alla sua libertà pur di conseguirla.
Meglio rossi che morti, per l’appunto. Ecco il succo della sua opera.
Carlo Gambescia
(*) Franco Ferrarotti, Diplomatico per caso, Guerini Editore 2007, p. 127
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