martedì 10 gennaio 2017

La scomparsa di Zygmunt Bauman
Meglio rossi che morti…

Piccola premessa. A differenza della fisica, la sociologia non ha mai trovato il suo Newton né il suo Einstein: il primo diede alla fisica il suo assetto classico, il secondo la rivoluzionò. Ma con entrambi, ancora oggi, i fisici devono confrontarsi.
Invece nelle scienze sociali, visto che l’uomo non può essere studiato in vitro, le cose sono andate diversamente. Certo, nei manuali, si parla di fondatori e classici. Ma resta il fatto che l’ impossibilità di parlare di una fisica di sinistra o di destra, non vale per la sociologia. Ad esempio, Pareto di solito è messo tra i conservatori, Adorno tra i progressisti, e così via. Inoltre, per alcuni studiosi la sociologia deve indagare l’ordine sociale, per altri invece il progresso e le rivoluzione. E in genere i primi (pochi e tremebondi) stanno a destra, mentre i secondi (più baldanzosi e numerosi) a sinistra.
Ciò spiega anche la difficoltà per la sociologia di trasformarsi in scienza “normale”, capace di studiare ordine e progresso insieme, stabilendo regolarità  o costanti sociali, come auspicava Gianfranco Miglio. Ma chiarisce anche un’altra cosa: in assenza di padri sicuri e metodi certi la sociologia è periodicamente costretta a scoprirne di nuovi. E’ vittima del complesso del trovatello: crede di riconoscere in ogni adulto il padre naturale. E qui, sarebbe lungo, ricordare i protagonisti delle mode sociologiche, non solo italiane...
Il che però  spiega  perché Zygmunt Bauman, scomparso ieri alla veneranda età di novantuno  anni,  sia  riuscito a guadagnare quella popolarità che gli ha permesso di restare negli ultimi anni sulla  cresta dell’onda sociologica come una specie di surfista (e padre putativo del trovatello di cui sopra ) della società liquida (e sociologia), da lui teorizzata. 
Zygmunt Bauman,  professore emerito di sociologia nelle Università di Varsavia e Leeds, città quest’ultima dove risiedeva e insegnava dal 1971. Polacco di famiglia ebraica, nel 1968 venne messo all’indice dall’autorità comuniste, dopo essere sfuggito trent’anni prima alle persecuzioni naziste, per poi  tornare a Varsavia nel 1945, al seguito delle armate sovietiche, sembra addirittura, secondo la testimonianza di Franco Ferrarotti, come agente del  KGB (*).  Un sociologo dalle profonde radici comuniste. Mai dimenticare, infatti, che la prima  opera di Bauman tradotta in italiano, dalla casa editrice del Pci, Editori Riuniti, anno di grazia 1971, fu il suo manuale Lineamenti di una sociologia marxista.
Bauman odiava il capitalismo.  
Nell’ aletta editoriale di uno dei suoi libri, l’ultimo da noi letto (poi ci siamo arresi): Vita liquida (Laterza 2006), in   contro copertina  è  definito “uno dei più noti e influenti pensatori del mondo”. Meritava di esserlo?  Forse“ avrebbe potuto”...  Dal momento che a Bauman  dobbiamo uno dei testi più interessanti sulla Shoah scritto negli anni Novanta: Modernità e Olocausto (il Mulino 1992). Un libro che andrebbe letto e studiato nelle scuole: dove si mostra come l’immane tragedia non fu soltanto opera di folli criminali, ma anche effetto di quell’ oggettiva “spersonalizzazione”, o burocratizzazione, degli individui, sempre possibile, nella  “nostra società razionale moderna”.
In realtà, Bauman, come vedremo, non ce l'ha fatta. Anche perché non si combatte il costruttivismo burocratico con dosi massicce di altro costruttivismo burocratico. Bauman scorgeva il problema ma non la soluzione, se non in dosi massicce di welfarismo, come vena dolce, ma burocratica, del post-comunismo.
Insomma, mai confondere la fama con il valore. Si pensi alla sua invasiva produzione sulla “società liquida”: decine e decine di volumi,  dove si  ripetono sempre le stesse cose. Si potrebbe parlare di ricorrenti variazioni sullo stesso tema, già sviluppate in Modernità liquida (Laterza 2000): libro che apre alla serie,  dove Bauman sostiene che la modernità “solida”, del lavoro di fabbrica, dello stato sociale, dei sindacati e dei partiti, avrebbe ceduto il passo alla modernità “liquida”: una nuova reincarnazione del moderno, imposta dai processi di globalizzazione, fondata sul lavoro flessibile, l’antipolitica e la fine di ogni progetto riformista e rivoluzionario. Se ieri esistevano punti di riferimento solidi (Chiesa, Stato, Partito, Impresa, Famiglia, eccetera), oggi si vivrebbe in uno spazio “acquatico”, segnato dall’invisibile e inarrestabile fluire di informazioni, mode e denaro. La cui “liquidità” non consente più alle persone di ricoprire ruoli sociali stabili (come cittadino, lavoratore, genitore, eccetera).
Capito? Stessa solfa, libro dopo libro.  Sicché, tutto il resto, per dirla con Franco Califano  era ed è   noia.  Eccetto  che per il lettore  anticapitalista. Non solo di sinistra...  Bauman, infatti, era ed è letto anche dalla destra estrema, neofascista. Per la serie, quando gli estremi si toccano.
Al di là dell’antico odio del comunista, per tutto ciò che “maleodora” di capitale, si tratta di una tesi, già di per sé, non freschissima, che attinge alla classica dicotomia tönniesiana tra Comunità/Società: tra legami caldi (comunitari) e freddi (contrattualistici). Che Bauman attualizza alla luce dei processi di globalizzazione. Di qui il successo editoriale (il global e antiglobal  sono  argomenti che “tirano”). Hanno fatto il resto: il fervore degli ambienti accademici, favorito dal complesso del trovatello, di cui sopra; il riflesso nascosto ma carnivoro del comunista mai pentito, che piace alla gente che piace; l’attenzione di un pubblico medio, che di storia sa poco o punto,  facilitata anche dal fatto che il sociologo Bauman, a differenza di tanti suoi colleghi, sapendo  tenere le penna in mano, affabulava.
Però scrivere con eleganza, spesso non basta, come nel caso di Vita Liquida, testo, che provocò in noi il rigetto:  un disorganico assemblaggio di saggi differenti. Bauman stesso nell’Introduzione, pudicamente, parla di “raccolta di intuizioni” . Ma la questione è appunto questa: le intuizioni (sette come i capitoli) non bastano per fare un libro. E, a maggior ragione, quando nulla tolgono e nulla aggiungono. Parlare di “vita liquida” invece di “società liquida”, come recita anche il titolo in inglese, è un gioco di parole (editoriale?). Temi come l’ “Individuo sotto assedio” (capitolo 1), la “Cultura: ribelle e ingestibile” (capitolo 3), “Il consumatore nella società liquido-moderna” (capitolo 5), e le stesse riflessioni sulla Arendt e Adorno, mal rifuse, e “appiccicate” in fondo al volume a mo’ di conclusione (capitolo 7), sono già sviluppati a sufficienza altrove. E altri come “Da martire a eroe, da eroe a celebrità” (capitolo 2), “Rifugiarsi nel vaso di Pandora (capitolo 4), e “Imparare a camminare sulle sabbie mobili” (capitoli 6), già accennati in altre sedi… Lasciamo al lettore perspicace, che avrà già mangiato la foglia, il piacere di scoprire dove...
Paradossalmente, Vita liquida, va però letto. Perché? Il testo, malgrado la disorganicità, resta una specie di antologia del déja vu, che consente perciò di fare una rapida carrellata sui luoghi comuni della “liquidità" baumaniana. In realtà,  il vero problema è che Bauman finisce per opporre alla società liquida una sociologia altrettanto liquida, priva di riferimenti “solidi”, se non l’anticapitalismo di antica  matrice marxista. Un’ ambiguità che affiora quando propone come via d’uscita, l’educazione permanente e la maggiore partecipazione sociale e politica dei cittadini. Il che non è uno scherzo. Soprattutto se non si indica in nome di quali valori “mobilitare”. E non potrebbe non essere così: dal momento che, come poi rileva, “i valori non sono né veri né falsi - possono solo essere accettati e rifiutati”. Di più: “nessuno può dimostrare o confutare la ‘verità’ di un valore”. Bauman preferisce così ripiegare sul solo “impegno”, morale e personale, nei riguardi dell’uomo e di coloro che soffrono. Per farla breve, propone una “globalizzazione morale planetaria”. Idea nobilissima, ma a dire il vero, per usare la sua stessa terminologia, molto “liquida”…  A quali istituzioni ricorrere? Su quali forze spirituali contare? Chi aiutare subito? Chi è ci è vicino? O chi ci è lontano? Come aiutare “tutti” quelli che "soffrono"? Basterà stanziare una quota del Pil? O servono subito atti concreti? Magari, favorire il volontariato? Ma come? Sono proposte, come si diceva un tempo, da “compagno di strada” o da “utile idiota”. Si vola alto, per  poi atterrare in  modo assai brusco.  Perché  per trasporre in politica,  o "implementare",  come dicono i burocrati, certe misure platonico-hegeliane, non si può, inevitabilmente, non incorrere nel costruttivismo. E di quello duro.   Se in fondo al cammino teorico dei Negri, degli  Žižek, dei Badiou  ci sono  la rivoluzione mondiale e  il "comitato di salute pubblica,  in fondo a quello di Bauman, c'è il welfare (solido) mondiale...  Frutto, in realtà, di quello stesso meccanismo, alla base dell'Olocausto, ben individuato, ma presto dimenticato, proprio da Bauman. Si legga a questo proposito (sul potente ruolo della macchina burocratica)  il bel libro di Aly Goetz , Lo stato sociale di Hitler (Einaudi 2007).  Purtroppo, l'ideologia uccide l'intelligenza degli eventi.
Quel che resta curioso della sua  fortuna editoriale (non solo) italiana,  è che a favorirla sono stati gli ultimi dinosauri della sociologia post-marxista, post-coloniale, post-visuale, post-tutto, abbarbicati alle cattedre e nostalgici della rivoluzione.  I quali però non hanno mai capito che il messaggio baumaniano era ed è più in sintonia con la sociologia dell’ordine che del progresso (e della rivoluzione):  quella filosofia sociale che inizia e finisce all'insegna  del meglio rossi che morti: della sicurezza (o dell' ordine) a tutti i costi.   L’ “uomo liquido”, come notava Bauman, vuole sicurezza e sarebbe disposto ( ma questo non lo diceva)  a rinunciare alla sua libertà pur di conseguirla.  Meglio rossi che morti, per l’appunto. Ecco il succo della sua opera.
Carlo Gambescia






(*) Franco Ferrarotti, Diplomatico per caso, Guerini Editore 2007, p. 127

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