martedì 31 marzo 2015

Normalità e società
Spicchi di  felicità



Per apprezzare la “normalità” sociale  si deve  provare  l’anormalità…  Serve una pietra di paragone. Insomma, per farla breve, trascorrere dalla sofferenza  alla  gioia.  Cosa vogliamo dire in concreto? Che, ad esempio, il Novecento ci ha regalato tra il 1914 e il 1945 un non breve  periodo di anormalità. Invece, il primo quindicennio del Ventesimo Secolo  brilla per la sua normalità.  Come possono essere definiti tali gli  otto  lustri (grosso modo, 1948-1991)  seguiti alla Seconda Guerra Mondiale.  Meno normale, per contro,  il primo quindicennio del Ventunesimo Secolo, apertosi con l’abbattimento terroristico  delle Torri Gemelle:  quindicennio, questo sì, lungo,  perché iniziato con la Prima  Guerra del Golfo...  
Quindi  normalità pace, anormalità guerra? Non proprio, perché i periodi “normali”, appena ricordati, da molti storici sono giudicati di “preparazione” alla guerra, e quindi non del tutto normali.  Eppure le persone  - come del resto  negli anni Venti-Trenta  -  si divertivano, amavano, lavoravano, si sposavano,  pianificavano il futuro.   Tutto appariva loro normale.  Dove era e dov'è,  allora, il punto  discrimine tra normalità e anormalità sociale?  Forse, non esiste.  Certo, esistono dati  statistici che indicano, per il Novecento, un costante miglioramento  della "quantità-qualità" di vita. Dati però  non condivisi da tutti,  di regola,  interpretati dai diversi attori  attraverso le lenti dell’ideologia: alla maggiore durata della vita in Occidente, si oppone, la minore durata  nel resto del mondo; ai progressi nelle tutele del lavoro in Occidente, si oppongono le pessime condizioni in cui versano i lavoratori  di  altri continenti. E così via.
Allora va tutto male?  O tutto bene? La normalità sociale esiste o non esiste? Diciamo, semplificando, che non si può essere tutti felici  (nei  termini di alcuni  indicatori ricordati)  nello  stesso momento.   Perciò mentre alcuni sguazzano nella normalità altri  affogano nell’anormalità… C’est la vie..  Il che spiega i buchi neri dell’insoddisfazione di alcuni e della soddisfazione di altri.  Qui però  si apre un problema etico.  Perché, come si sostiene, la nostra normalità dipenderebbe dall’anormalità di altri: un fatto increscioso da modificare subito  redistribuendo la ricchezza,  come si diceva un tempo, dal Nord  ricco al Sud povero. Anche qui però le strade si dividono. Perché, secondo i sostenitori del capitalismo, il mercato alla lunga, redistribuirà secondo il  merito (economico), favorendo gradualmente l’elevamento sociale di tutti (Nord e Sud), pur a livelli diversi;  per altri invece, gli anticapitalisti,  il mercato potrà solo accrescere le diseguaglianze (economiche, interne ed esterne), di qui la necessità, per evitare che pochi  divengano sempre più ricchi e molti sempre più poveri,   di correggerlo radicalmente o abolirlo del tutto.
Chi ha ragione? Dipende. Da che cosa?  Non tanto  dall’ idea di normalità (pro o anti capitalista) che eventualmente si condivida.  Allora? Dall’accettazione o meno, ripetiamo,  di una semplice  verità,  in fondo di senso comune (basta guardarsi intorno),   che non si potrà mai essere felici tutti insieme nello stesso momento.  La felicità è sempre a spicchi.  Spicchi temporali. Se qualcuno ride, qualcun altro piange.  Non si potrà  mai ridere o piangere a comando: per così dire,  piaccia o meno, esiste la mano invisibile del tormento e della gioia.  Il pianto però, come si diceva all'inizio, ci fa capire il valore del riso. O almeno dovrebbe.

Carlo Gambescia                     

  

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