Normalità e società
Spicchi di felicità
Per apprezzare la “normalità” sociale si deve provare l’anormalità… Serve una pietra di paragone. Insomma, per farla breve, trascorrere dalla sofferenza alla gioia. Cosa vogliamo dire in concreto? Che, ad esempio, il
Novecento ci ha regalato tra il 1914 e il 1945 un non breve periodo di anormalità. Invece, il primo quindicennio del Ventesimo Secolo brilla per la
sua normalità. Come possono essere definiti tali gli otto lustri (grosso modo, 1948-1991)
seguiti alla Seconda Guerra Mondiale. Meno normale, per contro,
il primo quindicennio del Ventunesimo Secolo, apertosi con l’abbattimento
terroristico delle Torri
Gemelle: quindicennio, questo sì, lungo, perché iniziato con la
Prima Guerra del Golfo...
Quindi normalità pace, anormalità guerra? Non
proprio, perché i periodi “normali”, appena ricordati, da molti storici sono
giudicati di “preparazione” alla guerra, e quindi non del tutto normali. Eppure le persone - come del resto negli anni Venti-Trenta - si divertivano, amavano, lavoravano, si
sposavano, pianificavano il futuro. Tutto
appariva loro normale. Dove era e dov'è,
allora, il punto discrimine tra normalità e anormalità
sociale? Forse, non esiste. Certo, esistono dati statistici che indicano, per il Novecento, un
costante miglioramento della "quantità-qualità" di vita. Dati però non
condivisi da tutti, di regola, interpretati dai diversi attori attraverso le lenti dell’ideologia: alla
maggiore durata della vita in Occidente, si oppone, la minore durata nel resto del mondo; ai progressi nelle tutele del lavoro in Occidente, si oppongono le pessime condizioni in cui
versano i lavoratori di altri continenti. E così via.
Allora va tutto male? O tutto bene? La normalità sociale esiste o
non esiste? Diciamo, semplificando, che non si può essere tutti felici (nei
termini di alcuni indicatori
ricordati) nello stesso momento. Perciò mentre alcuni sguazzano nella
normalità altri affogano nell’anormalità…
C’est la vie.. Il che spiega i buchi
neri dell’insoddisfazione di alcuni e della soddisfazione di altri. Qui però si apre un problema etico. Perché, come si sostiene, la nostra normalità dipenderebbe
dall’anormalità di altri: un fatto increscioso da modificare subito redistribuendo la ricchezza, come si diceva un tempo, dal Nord ricco al Sud povero. Anche qui però le strade si dividono. Perché,
secondo i sostenitori del capitalismo, il mercato alla lunga, redistribuirà
secondo il merito (economico), favorendo
gradualmente l’elevamento sociale di tutti (Nord e Sud), pur a livelli diversi; per altri invece, gli anticapitalisti, il mercato potrà solo accrescere le
diseguaglianze (economiche, interne ed esterne), di qui la necessità, per evitare che pochi divengano sempre più ricchi e molti sempre più
poveri, di correggerlo radicalmente o abolirlo del
tutto.
Chi ha ragione? Dipende. Da che
cosa? Non tanto dall’ idea di normalità (pro o anti
capitalista) che eventualmente si condivida. Allora? Dall’accettazione o meno, ripetiamo, di una semplice verità, in fondo di senso comune (basta guardarsi
intorno), che non si potrà mai essere felici tutti insieme
nello stesso momento. La felicità è
sempre a spicchi. Spicchi temporali. Se
qualcuno ride, qualcun altro piange. Non
si potrà mai ridere o piangere a comando: per così dire, piaccia o meno, esiste la mano invisibile del tormento e della gioia. Il pianto però, come si diceva all'inizio, ci fa capire il valore del riso. O almeno dovrebbe.
Carlo Gambescia
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