Il libro della
settimana: Cesare Garboli. Tartufo. Adelphi,
Milano 2014 pp. 176. Euro 13,00 (recensione a cura di Teodoro Klitsche de la Grange )
http://www.adelphi.it/libro/9788845975790 |
Questo
libro raccoglie saggi di Garboli sul “Tartuffe” pubblicati tra il 1973 e il
2000 (con una post-fazione di Cecchi e un saggio di Carlo Ginzburg).
L’interpretazione
che Garboli dà del personaggio di Moliére è attento al di esso “ruolo” sociale,
e più precisamente socio-politico.
Tartufo
è un impostore, un ipocrita: come tutti costoro sfrutta gli idola – le derivazioni direbbe Pareto – condivise
nella società. Le sfrutta a proprio beneficio, economico, sociale e di
carriera. In un ambiente sociale come quello del XVII secolo, intriso di
devozione religiosa (vera o falsa) il tipo dell’arrampicatore (perché Tartufo,
nato servo, solo per il coup de theatre
alla fine della commedia non riesce legalmente
a divenire padrone) è l’(apparente) bigotto. In sè Tartufo è un archetipo e a
modo suo, se non un eroe, almeno un “modello” nel senso di Max Scheler.
Rappresenta
(così) la sintesi dei valori positivi di un’epoca: ovviamente li rappresenta ma
non li vive né li condivide: se ne serve.
In
un’altra epoca, magari come la nostra secolarizzata, e dotata di un’altra
“tavola di valori”, Tartufo sarebbe stato non un devoto e un “direttore
spirituale”, ma un giornalista di regime o un politico sempre pronto a
commoventi discorsi sulla pace e i diritti umani ovvero un burocrate – tutto
trasudante zelo e buone intenzioni. Il significato politico di tutto ciò è chiaro
a Garboli: non solo perché Tartufo fa uso di uno dei due mezzi della politica –
l’astuzia – ma perché sfrutta i sentimenti popolari prevalenti (occorre
“parere” più che essere, avrebbe scritto Machiavelli).
Come
infatti scrive Garboli quello del personaggio di Moliére “è anche il modo che
hanno i politici di concepire la loro attività come qualcosa di salutare per il
mondo. Governare è simile a ciò che Tartufo fa con il patrimonio di Orgone. Non
vuole che a gestirlo siano i figli perché lo farebbero in modo scriteriato,
considera giusto che a occuparsene sia lui direttamente”. In altro punto l’autore
fa un’affermazione profonda: come tutti gli ipocriti che nascono servi – e sono
divenuti o vogliono diventare padroni, Tartufo si sceglie un padrone che non è
concreto, non è un vero padrone (dato che il potere è sempre esercitato
dall’uomo sull’uomo): il Cielo (che ha il pregio di non poter castigarlo in
questa vita).
Tutti
i Tartufi d’oggigiorno hanno la propensione a un padrone per così dire
“ideale”: la legge (non il popolo, non si sa mai), il mercato, l’umanità,
qualche volta – è meno di moda – la democrazia. Tutte astrazioni ideali di cui
il Tartufo di turno è l’interprete autorizzato.
Il
genio di Molière cambia la prima stesura del Tartufo alla fine dell’opera, al
momento del trionfo dell’impostore, e riporta le cose a posto, facendo
intervenire il signore concreto, cioè il Sovrano nella persona del Re sole, che
scopre le trame di Tartufo e la dabbenaggine dei giudici che hanno dato ragione
all’ipocrita: e con un motu proprio (vero
atto di sovranità) cassa la sentenza e manda Tartufo in galera. È la sovranità ormai
sviluppata che corregge malefatte ed
errori e interpreta il retto sentire ed agire comunitario.
Perché
– è questo che Garboli non tratta – lo stesso Molière nel pregare Luigi XIV di
togliere il divieto di rappresentazione del Tartufo sottolineava il carattere
de-compositivo dell’unità e dell’autorità politica svolta dall’ipocrisia (e
dagli ipocriti). D’altra parte, si ricava dall’epilogo della commedia, una
comunità politica che si fondasse solo sul rispetto delle leggi (norme, tavole
dei valori e così via) non potrebbe neppure esistere e vivere: perché occorre
comunque, ed è ancora più importante, l’obbedienza leale a un potere umano,
irriducibile alle “norme” (al Cielo, direbbe Tartufo, e non da solo). Essere
suddito o cittadino di una comunità richiede
un’adesione leale e non strumentale così come sollecitudine per il bene comune
e non quella per i propri affari personali. Una lezione quanto mai attuale. Il
che prova che il “Tartuffe”, che ha superato il contesto della propria epoca,
ha le dimensioni di un “classico”: quello di un’opera che vale per tutti i
tempi.
Teodoro Klitsche de la Grange
Teodoro Klitsche de la Grange è avvocato,
giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" (
http://www.behemoth.it/ ).
Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il
salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia
della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va
lo Stato? (2009), Funzionarismo (2013).
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