giovedì 12 marzo 2015

Il libro della settimana: Cesare Garboli. Tartufo. Adelphi, Milano 2014 pp. 176. Euro 13,00  (recensione a cura di  Teodoro Klitsche de la Grange)

http://www.adelphi.it/libro/9788845975790


Questo libro raccoglie saggi di Garboli sul “Tartuffe” pubblicati tra il 1973 e il 2000 (con una post-fazione di Cecchi e un saggio di Carlo Ginzburg).
L’interpretazione che Garboli dà del personaggio di Moliére è attento al di esso “ruolo” sociale, e più precisamente socio-politico.
Tartufo è un impostore, un ipocrita: come tutti costoro sfrutta gli idola – le derivazioni direbbe Pareto – condivise nella società. Le sfrutta a proprio beneficio, economico, sociale e di carriera. In un ambiente sociale come quello del XVII secolo, intriso di devozione religiosa (vera o falsa) il tipo dell’arrampicatore (perché Tartufo, nato servo, solo per il coup de theatre alla fine della commedia non riesce legalmente a divenire padrone) è l’(apparente) bigotto. In sè Tartufo è un archetipo e a modo suo, se non un eroe, almeno un “modello” nel senso di Max Scheler.
Rappresenta (così) la sintesi dei valori positivi di un’epoca: ovviamente li rappresenta ma non li vive né li condivide: se ne serve.
In un’altra epoca, magari come la nostra secolarizzata, e dotata di un’altra “tavola di valori”, Tartufo sarebbe stato non un devoto e un “direttore spirituale”, ma un giornalista di regime o un politico sempre pronto a commoventi discorsi sulla pace e i diritti umani ovvero un burocrate – tutto trasudante zelo e buone intenzioni. Il significato politico di tutto ciò è chiaro a Garboli: non solo perché Tartufo fa uso di uno dei due mezzi della politica – l’astuzia – ma perché sfrutta i sentimenti popolari prevalenti (occorre “parere” più che essere, avrebbe scritto Machiavelli).
Come infatti scrive Garboli quello del personaggio di Moliére “è anche il modo che hanno i politici di concepire la loro attività come qualcosa di salutare per il mondo. Governare è simile a ciò che Tartufo fa con il patrimonio di Orgone. Non vuole che a gestirlo siano i figli perché lo farebbero in modo scriteriato, considera giusto che a occuparsene sia lui direttamente”. In altro punto l’autore fa un’affermazione profonda: come tutti gli ipocriti che nascono servi – e sono divenuti o vogliono diventare padroni, Tartufo si sceglie un padrone che non è concreto, non è un vero padrone (dato che il potere è sempre esercitato dall’uomo sull’uomo): il Cielo (che ha il pregio di non poter castigarlo in questa vita).
Tutti i Tartufi d’oggigiorno hanno la propensione a un padrone per così dire “ideale”: la legge (non il popolo, non si sa mai), il mercato, l’umanità, qualche volta – è meno di moda – la democrazia. Tutte astrazioni ideali di cui il Tartufo di turno è l’interprete autorizzato.
Il genio di Molière cambia la prima stesura del Tartufo alla fine dell’opera, al momento del trionfo dell’impostore, e riporta le cose a posto, facendo intervenire il signore concreto, cioè il Sovrano nella persona del Re sole, che scopre le trame di Tartufo e la dabbenaggine dei giudici che hanno dato ragione all’ipocrita: e con un motu proprio (vero atto di sovranità) cassa la sentenza e manda Tartufo in galera. È la sovranità ormai sviluppata che corregge malefatte ed errori e interpreta il retto sentire ed agire comunitario.
Perché – è questo che Garboli non tratta – lo stesso Molière nel pregare Luigi XIV di togliere il divieto di rappresentazione del Tartufo sottolineava il carattere de-compositivo dell’unità e dell’autorità politica svolta dall’ipocrisia (e dagli ipocriti). D’altra parte, si ricava dall’epilogo della commedia, una comunità politica che si fondasse solo sul rispetto delle leggi (norme, tavole dei valori e così via) non potrebbe neppure esistere e vivere: perché occorre comunque, ed è ancora più importante, l’obbedienza leale a un potere umano, irriducibile alle “norme” (al Cielo, direbbe Tartufo, e non da solo). Essere suddito o cittadino di una comunità          richiede un’adesione leale e non strumentale così come sollecitudine per il bene comune e non quella per i propri affari personali. Una lezione quanto mai attuale. Il che prova che il “Tartuffe”, che ha superato il contesto della propria epoca, ha le dimensioni di un “classico”: quello di un’opera che vale per tutti i tempi.
Teodoro Klitsche de la Grange


Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth" ( http://www.behemoth.it/  ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).


Nessun commento:

Posta un commento