Le culture politiche
italiane e il capitalismo
Ma quale
controrivoluzione liberista…
Quando si parla di culture politiche italiane è corretto distinguere tra il mondo
accademico che produce ricerche teoriche, quando le produce, che regolarmente,
tranne qualche eccezione, sono ignorate all’estero, e cultura politica vera e
propria, nel senso di una cultura pratica
capace di influenzare
(condizionare è parola grossa) la
produzione legislativa.
Tuttavia, la distinzione può valere fino a un certo punto. Perché, quanto alla sua appartenenza, tutta la cultura politica italiana ( teorica e pratica) finisce per suddividersi in
due grandi filoni, il cattolico e il riformismo post-marxista,
due placidi fiumi che spesso oggi si confondono, cui si affianca il
piccolo rivolo liberale, accompagnato
da altri due ruscelletti, un tempo impetuosi e gonfi d’acqua: neocomunismo
e neofascismo.
Preferiamo non fare nomi, tanto li conoscono tutti. Però, tutte queste
culture, eccetto quella rappresentata dall' ininfluente e litigioso gruppetto dei professori liberali, condividono lo stesso punto di vista. Quale? Un' inadeguata comprensione, a voler essere benevoli, del fenomeno capitalista. In Italia la
società di mercato, l’economia aperta, la libertà di intrapresa economica continuano ad essere giudicate pericolose o nella migliore delle ipotesi sopportate. Probabilmente
la Costituzione italiana, ancora oggi difesa a spada tratta - a
parte l'isoletta liberale - nei suoi principi catto-socialisti, resta
l’esempio più chiaro di una cultura politica fortemente sospettosa se non addirittura contraria alla libertà economica. Parliamo di una Costituzione
che risale all’ anno di grazia 1948, quando sui patti agrari cadevano i governi. Una
Costituzione vincolata, ma il termine giusto sarebbe pietrificata alla visione engelsiana del capitalismo britannico, risalente, come è noto, alla metà del XIX secolo.
Si pensi solo alla “battaglia politica” sul Jobs Act: nulla
più di una modesta liberalizzazione (non privatizzazione) del rapporto di
lavoro. Un piccolissimo passo in avanti,
niente di più. Ora, è vero che in Parlamento si tende sempre a esagerare la vittorie o la sconfitta di una parte sull'altra, ma è altrettanto vero che è un autentico esempio di arretratezza culturale, presentare misure tutto sommato blande come “vittoria della libertà economica” o come
“trionfo della macelleria sociale”. Una povertà di idee che -
attenzione - dipende anche dalla
natura del tessuto imprenditoriale di un sistema industriale e creditizio
cresciuto all’ombra dei poteri pubblici. Un assistenzialismo a dire il vero, dato per scontato non solo dagli imprenditori ma persino dagli stessi cittadini. I quali continuano a vedere nello stato una specie di paterno potere celeste in ultima istanza. Sicché invece di rimboccarsi le maniche, gli italiani (non tutti, fortunatamente) attendono, volgendo gli occhi al cielo, la famigerata caduta della manna. Facendo finta di non capire che per ogni euro caduto dall'alto ( in pseudoservizi sociali), lo stato ne rapina due. Eppure è così semplice: nessun pasto è gratis.
È veramente comico, anzi
tragicomico, come talvolta si legge a proposito delle politiche economiche di
Renzi ( statalista e tassatore della più bell’acqua), parlare di
controrivoluzione liberista in Italia, dove una rivoluzione liberale non c’è
mai stata.
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Posta un commento