sabato 14 marzo 2015

Le culture politiche italiane e il capitalismo
Ma quale controrivoluzione liberista…


Quando si parla di culture politiche italiane  è corretto distinguere tra il mondo accademico che produce ricerche teoriche, quando le produce, che regolarmente, tranne qualche eccezione, sono ignorate all’estero, e cultura politica vera e propria, nel senso di una cultura pratica  capace di  influenzare (condizionare  è parola grossa) la produzione legislativa.
Tuttavia, la distinzione  può valere fino a un certo punto.  Perché, quanto alla sua  appartenenza,  tutta la  cultura politica  italiana ( teorica e  pratica)  finisce per  suddividersi  in  due  grandi  filoni, il cattolico e il riformismo post-marxista, due placidi fiumi che spesso oggi si confondono,  cui si affianca  il  piccolo  rivolo liberale, accompagnato da altri  due ruscelletti, un tempo  impetuosi e gonfi d’acqua:  neocomunismo  e neofascismo. 
Preferiamo non fare nomi,  tanto li conoscono tutti. Però, tutte queste culture, eccetto quella rappresentata dall' ininfluente e litigioso gruppetto dei professori liberali, condividono lo stesso punto di vista.  Quale? Un' inadeguata comprensione, a voler essere benevoli,  del  fenomeno capitalista.  In Italia la società di mercato, l’economia aperta, la libertà di intrapresa economica  continuano ad essere giudicate pericolose o nella migliore delle ipotesi sopportate.  Probabilmente  la  Costituzione  italiana, ancora oggi difesa  a spada tratta  -  a parte l'isoletta liberale  -  nei suoi principi  catto-socialisti,  resta  l’esempio  più  chiaro   di una  cultura politica  fortemente  sospettosa se non addirittura contraria alla libertà economica.  Parliamo di una  Costituzione  che risale all’ anno di grazia 1948, quando sui patti agrari cadevano i governi.  Una Costituzione vincolata, ma il termine giusto sarebbe pietrificata alla  visione engelsiana del capitalismo  britannico,  risalente, come è noto,  alla metà del XIX  secolo.
Si pensi solo  alla   “battaglia politica” sul  Jobs Act: nulla più di una modesta liberalizzazione (non privatizzazione) del rapporto di lavoro.  Un piccolissimo passo in avanti, niente di più. Ora, è vero che  in  Parlamento   si tende sempre a esagerare  la vittorie o la sconfitta di una parte sull'altra, ma è altrettanto vero che è un autentico esempio di  arretratezza culturale,  presentare misure tutto sommato blande come “vittoria della libertà economica” o come  “trionfo della macelleria sociale”. Una povertà di idee  che -  attenzione -  dipende anche dalla natura del  tessuto imprenditoriale  di un sistema industriale e creditizio cresciuto all’ombra dei poteri pubblici. Un assistenzialismo a dire il vero, dato per scontato non solo dagli imprenditori ma persino dagli stessi cittadini.  I quali continuano a vedere nello stato  una specie di paterno potere celeste in ultima istanza.  Sicché  invece di rimboccarsi le maniche,  gli italiani (non tutti,  fortunatamente) attendono, volgendo gli occhi al cielo, la famigerata caduta della manna. Facendo finta di non capire che per ogni euro caduto dall'alto ( in pseudoservizi sociali),  lo stato ne rapina due.  Eppure è così semplice:  nessun pasto è gratis.    
È veramente comico, anzi tragicomico, come talvolta si legge a proposito delle politiche economiche di Renzi ( statalista e tassatore della più bell’acqua), parlare di controrivoluzione liberista in Italia, dove una rivoluzione liberale non c’è mai stata. 


Carlo Gambescia     

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