Un libro sulla richiesta di rinvio a giudizio del P.M. Michele Ruggiero nel processo contro Standard
& Poors
Leggi rating, ma traduci golpe
di Teodoro Klitsche de la Grange
Questo breve libro Un golpe chiamato Rating a cura di A. Sallusti, pref .di Renato Brunetta, intr. di Elio Lannutti (Il
Giornale – Free Fundation) è la richiesta di rinvio a giudizio del P.M. dr.
Michele Ruggiero (nella foto) nel processo a Trani contro l’agenzia di rating Standard
& Poors (presunta) rea di aver manipolato i dati del “rating” italiano nel
2011 per realizzare – e/o far realizzare – enormi profitti finanziari, a
carico, s’intende, dell’Italia (e non solo).
Non è nostro compito
esporre i fatti, per lo più noti, che il
lettore può agevolmente conoscere leggendolo; il pamphlet – perché tale è il genere letterario cui è meglio
riconducibile (questo) atto processuale, è di rapida ed agevole lettura:
piuttosto appare utile enumerare, al di là di un pura e semplice recensione, gli
idola imperversanti nell’opinione pubblica, che impediscono di
ricondurre i fatti a presupposti e categorie acquisite da secoli e millenni nel
pensiero e nell’azione politico-sociale, e sono altrettanto utili a chi ha
realizzato il grande imbroglio del
rating – costato centinaia di miliardi al nostro paese- nel predare il popolo
italiano di quanto lo siano ai Dulcamara di regime per emascularlo.
Il Primo. I “mercati”
giudicavano l’Italia “inaffidabile”. Dato però che, come qualsiasi studente di
economia (e giurisprudenza) sa, la formazione dei prezzi è soggetta a
componenti psicologiche, basate su notizie e l’ “autorità” di esperti, chi
manipola quelle notizie e gode di quell’“autorità” può orientare l’opinione
pubblica, influenzare i prezzi dei titoli – almeno nel breve periodo –,
realizzare enormi plusvalenze (e scappare con la cassa). Questo è il nocciolo
del libro; ed è un fatto così noto e ripetuto che meraviglia quanto poco la
vicenda fosse valutata sotto questo profilo dalla stampa italiana nel 2011. Il
che alimenta più che il sospetto la certezza che, in gran parte, fosse della
“partita”.
Va da se che i “mercati” hanno il pregio di
essere entità impersonale ed “astratta”, al riparo da responsabilità – e
rappresaglie politiche e giudiziarie, Ma se dall’impersonale astratto si passa al
personale concreto, cioè ai manipolatori, il pregio suddetto viene meno.
Ragione ottima per incolpare i “mercati” delle manovre di società e uomini
identificabili.
Il Secondo. La politica (e lo
Stato) non deve intervenire nell’economia. E qui si può essere, in linea di
massima, d’accordo. Ancor più in un paese come l’Italia dove una cattiva
politica, ancor oggi, è una palla al piede dell’economia nazionale. Ma nel caso
d’eccezione (come in una crisi economica grave) è proprio il contrario; è
opportuno farlo. Nell’alternativa tra pagare interessi da usurai e deprimere
l’economia (cioè l’essenza dell’azione di governo degli ultimi anni), è
doveroso proteggere gli interessi della nazione a scapito di quelli dei
creditori. Il che non significa neppure, nel caso di specie, non pagarli, ma
piuttosto non servirli, agevolandone
i sopraprofitti e, al limite di contrastarli. Invece è capitato il contrario:
che i governi italiani (e non solo) hanno fatto le colf della finanza (interna ed) internazionale.
Il Terzo. Questa non è politica,
è economia. Circostanza in parte (ma solo in parte) vera.
Il primo luogo perché la crisi ha prodotto la
caduta di quattro governi dell’eurozona (Grecia, Italia, Spagna, Francia). E
ciò che ha effetti politici così evidenti è di natura politica. In secondo
luogo la politica può essere fatta da Stati, o, nel “crepuscolo della
modernità” sempre più da soggetti non statali (movimenti, partiti, lobbies,
sette, bande e così via): il fatto di non essere statale non è affatto criterio
distintivo del “politico”. Piuttosto è decisivo il rapporto col potere, il
contrasto di volontà, e con i mezzi dell’azione politica. E qui l’oggetto è il
potere, rappresentato da centinaia di miliardi, il bottino della guerra dello spread (un tempo si chiamavano tributi,
indennità, riparazioni e così via). C’è poi un conflitto di volontà, ch’è
l’essenza della guerra, il cui scopo, da SUN-TZU a Giovanni Gentile, è proprio
di costringere l’altro a fare la propria volontà (ed interessi): nella specie a
pagare interessi più alti sul debito pubblico.
Ed i mezzi: non c’è violenza. Ma chi ha mai
sostenuto che mezzo esclusivo della
politica sia la forza? Non Machiavelli
nel famoso passo sulla volpe (l’astuzia) e il leone (la forza); non i classici
del pensiero politico da Bodin a Naudè a Schmitt a Pareto. Qua manca la
violenza umana ma di frode ce n’è a josa. E con ciò lo strumento, per lo più
complementare, ma talvolta alternativo alla violenza.
Infine chi pensa che la guerra e le forme
complementari e simili (rivoluzioni, colpi di Stato) richiedono necessariamente l’uso della forza, ha
sbagliato secolo. Come qualche anno fa dimostrarono i due colonnelli cinesi
Quiao Liang e Wang Xiangsui nel libro “Guerra senza limiti” proprio il
carattere pacifista della nostra epoca comporta che il conflitto si sviluppi in
forme “alternative” (non – violente) o a bassa intensità di violenza. E
citavano, tra l’altro, proprio gli attacchi finanziari.
L’importante, in tal caso, è non dar ragione
all’attaccante in omaggio ai “mercati” o al “diritto” – questo preso per
immutabile.
Non sappiamo se l’eccellente lavoro del P.M. dr.
Ruggiero darà un esito giudiziario positivo; ma averlo scritto è già un atto di
anticonformismo e di coraggio. Resta il fatto che vicende come quelle della
crisi del 2011 sono essenzialmente politiche, hanno conseguenze politiche,
evidenziano responsabilità politiche e richiedono valutazioni politiche: e la
giurisdizione per queste è una camicia troppo stretta. Vale il giudizio di
Machiavelli che in questi casi non è utile il giudizio “dei pochi”. È
necessario quello dei “tutti” cioè dei cittadini, per evitare che l’accaduto si
ripeta, prendere le contromisure adeguate, ed evitare soprattutto l’ottundimento
del discernimento popolare, ossia ciò su cui si basano trame del genere.
Teodoro
Klitsche de la Grange
Teodoro Klitsche de la Grange è avvocato,
giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" ( http://www.behemoth.it/ ).
Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il
salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia
della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va
lo Stato? (2009), Funzionarismo (2013).
Condivido anche gli spazi vuoti tra una parola e l'altra.
RispondiEliminaCoraggioso ed esemplare.