giovedì 13 novembre 2014

Il libro della settimana: Florence Faucher, Patrick le Galès, L’esperienza del New Labour. Un’analisi critica della politica e delle politiche, pref. di Roberto Biorcio e Tommaso Vitale, Postfazione di Fabrizio Barca,  Franco Angeli, Milano 2014, pp. 192, Euro 25,00.



Tre sono gli eventi politici che hanno influito sul destino della sinistra europea negli ultimi trenta/trentacinque anni: il ciclone Thatcher, la  rovinosa  caduta del Muro,  la svolta di Blair. Ovviamente sullo sfondo, di un altro gigantesco inglobante politico-economico: l’internazionalizzazione dei mercati.
A queste  sfide, in Italia  si è risposto con la  furba retorica del cambiamento: del nuovo che avanza, senza arrivare mai davvero.  In perfetto stile gattopardo, a dire il vero anche a destra.  Pertanto bisogna fare attenzione nel fare  paragoni   tra  l’esperimento Renzi, per ora solo agli inizi,  con il "pezzetto" di storia britannica scritto da Blair e Gordon, "fratelli coltelli"(1997-2010). Però, detto questo, la domanda incombe più di prima: Renzi è  il Blair italiano?
Per rispondere, innanzitutto,  ci deve documentare meglio sul blairismo.  E un buon libro in argomento è quello, ancora fresco di stampa, scritto da  Florence Faucher, Patrick le Galès, L’esperienza del New Labour. Un’analisi critica delle politiche pubbliche, politologi francesi; testo  opportunamente uscito per i tipi di Franco Angeli.
Ben scritto, ottimamente tradotto,  L’esperienza del New Labour  si suddivide in cinque densi capitoli: sul modello politico-economico britannico, ancora  stregato, dopo la Thatcher , dalle  politiche dell’offerta (Blair e Gordon inclusi); sulla rivoluzione  economico-antropologica realizzata dal thatcherismo  e recepita dal New Labour ( dalla macroeconomia  alla microeconomia); sull’eterogenesi dei fini istituzionali “newlabouristi”  in chiave  - crediamo -  più tocquevilliana che  weberiana  (il centralismo come esito della decentralizzazione); sulla trasformazione del partito laburista in impresa comunicativa (distante dai sindacati e neppure  vicina al celebrato cittadino consumatore); sulla sfida perduta nella democratizzazione della Gran Bretagna post-thatcheriana ( confermatasi, nonostante le promesse di Blair e Gordon,  società molto dura verso i meno abbienti).
Si avverte che  il cuore degli autori (come di prefatori e postprefatori),  nonostante  gli  sforzi,  batte a sinistra, diciamo, se ci si passa la battuta, sinistra non decaffeinata. Come qui: «Il New Labour è andato al governo come partito di centrosinistra. Con gli anni si è spostato in modo decisivo verso il centrodestra. Non è più un partito socialdemocratico. Il linguaggio dell’uguaglianza è scomparso  nella ricerca di un ideale di società “ in cui non tutti finiscono con l’avere successo… ma tutti hanno la stessa opportunità di farcela » (p. 178). 
E che tipo di uguaglianza  la sinistra dovrebbe propugnare?  Trasformare tutti in persone di successo?  O  tramutare  tutti in persone di non successo? In realtà,  l’uguaglianza è sempre e solo  uguaglianza davanti   alla legge. Pari opportunità per tutti, dopo di che ognuno per sé. 
L'accento sulla rivoluzione (dell'eguaglianza) tradita, ricorda  quello tutto  ottocentesco dell’ ”eguaglianza delle fortune”: proclama  urlato  nel 1830 e nel 1870 sulle barricate parigine, tra colpi di fucile e cannonate.  Roba vecchia,  da  "Quarto Stato" di  Pelizza da Volpedo... Che ha un suo fascino, ma solo al cinema. Una visione arcaica,  superata  nei fatti  dall’integrazione - piaccia  o meno -   della famigerata “classe operaia” nella società dei consumi. Un grido battaglia piuttosto che una issue politologica,  pericoloso per ogni società libera. Mai dimenticarlo.
In realtà, il  blairismo, come giustamente notano Faucher e Le Galès, continua a vedere  nello stato  un  «“fornitore” di servizi pubblici attraverso le regole  del gioco  che esso stesso inventa e modifica, ovvero uno Stato al tempo stesso attivista e regolatore» (p. 175).  Il che è decisamente di sinistra. Certo, parliamo di una sinistra moderna, non marxista, in grado di  puntare  sullo stimolo più che sull’intervento diretto;  sul principio di affermazione individuale piuttosto che sulla lotta di classe; sull’idea, più volte sottolineata da Blair, di sostegno ai  mercati aperti, quale principale  fonte di ricchezza e progresso per tutti, belli e brutti.
In Italia, per tornare al quesito iniziale,  Renzi  sembra credere, più o meno, nelle stesse idee.  Tuttavia  lo Stivale non mai avuto una signora Thatcher,  bensì Berlusconi,  né un partito laburista dalle tradizioni democratiche, ma il Pci del "centralismo democratico".  Perciò  l’ex Sindaco di Firenze ha davanti  a sé liberali immaginari e  ferrivecchi del partito comunista. La vediamo dura. 
Carlo Gambescia
              

2 commenti:

  1. Non trascurerei fra gli eventi che hanno influito sulla crisi delle sinistre la cosiddetta rivoluzione digitale che, sommata alla stagnazione economica, non permette politiche distributive (niente crescita, niente redistribuzione). Anche per questi motivi, Renzi mi sembra un Blair fuori tempo massimo. Saluti

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