Riflessioni
Cittadinanza: u-topia o destino?
di Giuliano Borghi
Eugéne Delacroix, |
La cittadinanza
è quel privilegio civico che tiene
assieme su una linea di amicizia
coloro che godono di tale privilegio
del quale, invece, non possono beneficiare coloro che “cittadinanza” non hanno.
Il cittadino possiede, proprio e
unicamente perché è tale, quelle prerogative politiche che si riassumano nella isonomia, nella isotimia e nella isegoria,
concetti-chiave della Partecipazione.
La cittadinanza
ha uno statuto esclusivamente politico e si deve meritare perché è proprio il suo possesso attivo che rende operative le condizioni per le quali i cittadini, proprio in quanto tali, partecipano ad una eguaglianza di
diritti-doveri, di pari possibilità ad accedere a tutte le funzioni e di libertà d’espressione. La cittadinanza, infatti, non sa che
farsene di individui indistinti, senza-appartenenza, ma pretende uomini
inseriti, mossi da un civismo disinteressato e che sappiano flettersi
sull’interesse della Città. Partecipare significa mettersi alla
prova come parte di un tutto ed assumersi il ruolo attivo che una tale appartenenza
implica. La partecipazione si fa un
diritto per quel tanto che è vissuta responsabilmente
come un servizio e, in questo senso,
come un dovere. L’acquisto della cittadinanza,
pertanto, impone una adesione forte, consapevole e volontaria, continuamente
riaffermata, alla Città, ben aldilà
di un inconsistente ius soli e
neppure di un originario, ma per altre ragioni anemico, non sufficiente, ius sanguinis. La Cittadinanza
è lo specchio del legame che unisce i membri di una Città, è l’assunzione accettata e responsabile di un destino comune,
è la scommessa di una eredità da trasmettere in forme sempre rinnovate.
Questo richiede, però, che ad abitare la Città
sia l’homo politicus, perché è
rigorosamente impossibile che viva “ il
potere del corpo dei cittadini” quando la cittadinanza di appartenenza si trovi
sfaldata e resa informe dalla presenza preminente dell’individuo consumans. In una tale situazione si
avrebbe solo la fine della cittadinanza,
con la conseguente fine dello Stato politico, cioè del “potere del popolo in
quanto insieme organico dei cittadini”. Che senso avrebbe, allora, accordare il
“ potere al popolo”, quando questo non dovesse più essere un’entità capace di
esprimere una volontà generale e dovesse difettare di omogeneità culturale e
storica? Quando il popolo si oscura,
anche il cittadino è in esilio, non è
più libero e quel che resta è solo l’apatia o l’indifferenza. E la cittadinanza non esprimerebbe più
l’appartenenza ad un popolo, cioè ad
una cultura, ad una storia, a un destino e all’unità politica che la ha messa
in forma. Certamente il popolo non
sparisce, continua ad essere virtualmente ri-costituibile, mantiene i suoi
reticoli e vive la sua vita, senza perdere la consapevolezza che la sua
sopravvivenza dipende esclusivamente da lui, da quella “permanenza di socialità”, da quella sua non perdibile capacità di auto-rigenerarsi,
già tanto suggestivamente descritta da Montaigne e Heidegger. Il popolo continua sempre ad abitare la
forza misteriosa del philum, ma può
ri-prenderne lucida coscienza e dar vita e linfa ad una altra forma, più autentica, di vita associata, solo in un quadro
culturale e sociale del tutto contrario a quello odierno, de-culturizzato,
economicamente addomesticato e privo di quella arétè, che è la vera pietra d’angolo sulla quale si possa
appoggiare l’autogoverno degli uomini
liberi.
E’ necessario, per questo, propiziare un re-inizio della convivenza politica, che
si muova da una re-novatio antropologica
e che punti a riattivare un legame sociale che sia sentito come autentico,
oltrepassando la crisi di senso che sta intristendo l’esistenza del singolo e
la vita pubblica. Con queste premesse, il passaggio alla dimensione
istituzionale, la scelta delle necessarie riforme da compiere, potrà
realizzarsi fluentemente attraverso gradi successivi, evitando l’impotenza
delle applicazioni finora registratasi e condurre fuori dalle secche di una
temperie impolitica.
A questo può soccorrere pienamente la triplice
obbligazione del dare-ricevere-restituire, per quello che essa costituisce un vero e
proprio a-priori sociale, l’unico in
grado di ri-connettere l’uomo all’uomo e l’uomo al mondo, sovra ordinando
tali relazioni a quella con le “cose”.
Propizia, per di più, una trasparente forma di scambio personalizzata, vivificata dal calore
della persona che offre tanto la “cosa” quanto il sentimento e che dura nel tempo, poiché è un bene che con
l’uso non si consuma, ma vive della e nella storia.
Giuliano Borghi
Giuliano Borghi, docente di filosofia
politica nelle università di Roma e Teramo. Ha pubblicato studi su Evola,
Platone, Nietzsche, il pensiero tragico e la filosofia della crisi. Si
occupa in particolare dei rapporti tra pensiero politico ed economico dal punto
di vista dell'antropologia filosofica.
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