sabato 15 novembre 2014

 Riflessioni
Cittadinanza: u-topia o destino?
di Giuliano Borghi

Eugéne Delacroix, La Libertà che guida il popolo  (1830, Parigi, Louvre)

La cittadinanza è quel privilegio civico che tiene assieme su una linea di amicizia coloro che godono di tale privilegio del quale, invece, non possono beneficiare coloro che “cittadinanza” non hanno. Il cittadino possiede, proprio e unicamente perché è tale, quelle prerogative politiche che si riassumano nella isonomia, nella isotimia e nella isegoria, concetti-chiave della Partecipazione.
La cittadinanza ha uno statuto esclusivamente politico e si deve meritare perché è proprio il suo possesso attivo che rende operative le condizioni per le quali i cittadini, proprio in quanto tali, partecipano ad una eguaglianza di diritti-doveri, di pari possibilità ad accedere a tutte le funzioni e di libertà d’espressione. La cittadinanza, infatti, non sa che farsene di individui indistinti, senza-appartenenza, ma pretende uomini inseriti, mossi da un civismo disinteressato e che sappiano flettersi sull’interesse della Città. Partecipare significa mettersi alla prova come parte di un tutto ed assumersi il ruolo attivo che una tale appartenenza implica. La partecipazione si fa un diritto per quel tanto che è vissuta responsabilmente come un servizio e, in questo senso, come un dovere. L’acquisto della cittadinanza, pertanto, impone una adesione forte, consapevole e volontaria, continuamente riaffermata, alla Città, ben aldilà di un inconsistente ius soli e neppure di un originario, ma per altre ragioni anemico, non sufficiente, ius sanguinis. La Cittadinanza è lo specchio del legame che unisce i membri di una Città, è l’assunzione accettata e responsabile di un destino comune, è la scommessa di una eredità da trasmettere in forme sempre rinnovate.
Questo richiede, però, che ad abitare la Città sia l’homo politicus, perché è rigorosamente impossibile  che viva “ il potere del corpo dei cittadini” quando la cittadinanza di appartenenza si trovi sfaldata e resa informe dalla presenza preminente dell’individuo consumans. In una tale situazione si avrebbe solo la fine della cittadinanza, con la conseguente fine dello Stato politico, cioè del “potere del popolo in quanto insieme organico dei cittadini”. Che senso avrebbe, allora, accordare il “ potere al popolo”, quando questo non dovesse più essere un’entità capace di esprimere una volontà generale e dovesse difettare di omogeneità culturale e storica? Quando il popolo si oscura, anche il cittadino è in esilio, non è più libero e quel che resta è solo l’apatia o l’indifferenza. E la cittadinanza non esprimerebbe più l’appartenenza ad un popolo, cioè ad una cultura, ad una storia, a un destino e all’unità politica che la ha messa in forma. Certamente il popolo non sparisce, continua ad essere virtualmente ri-costituibile, mantiene i suoi reticoli e vive la sua vita, senza perdere la consapevolezza che la sua sopravvivenza dipende esclusivamente da lui, da quella “permanenza  di socialità”, da quella sua  non perdibile capacità di auto-rigenerarsi, già tanto suggestivamente descritta da Montaigne e Heidegger. Il popolo continua sempre ad abitare la forza misteriosa del philum, ma può ri-prenderne lucida coscienza e dar vita e linfa ad una altra forma, più autentica, di vita associata, solo in un quadro culturale e sociale del tutto contrario a quello odierno, de-culturizzato, economicamente addomesticato e privo di quella arétè, che è la vera pietra d’angolo sulla quale si possa appoggiare l’autogoverno degli uomini liberi.
E’ necessario, per questo, propiziare un re-inizio della convivenza politica, che si muova da una re-novatio antropologica e che punti a riattivare un legame sociale che sia sentito come autentico, oltrepassando la crisi di senso che sta intristendo l’esistenza del singolo e la vita pubblica. Con queste premesse, il passaggio alla dimensione istituzionale, la scelta delle necessarie riforme da compiere, potrà realizzarsi fluentemente attraverso gradi successivi, evitando l’impotenza delle applicazioni finora registratasi e condurre fuori dalle secche di una temperie impolitica.
A questo può soccorrere pienamente la triplice obbligazione del dare-ricevere-restituire,  per quello che essa costituisce un vero e proprio a-priori sociale, l’unico in grado di ri-connettere l’uomo all’uomo e l’uomo al mondo, sovra ordinando tali relazioni a quella con le  “cose”.
Propizia, per di più, una trasparente forma di scambio personalizzata, vivificata dal calore della persona che offre tanto la “cosa” quanto il sentimento e che dura nel tempo, poiché è un bene che con l’uso non si consuma, ma vive della e nella storia.
Giuliano Borghi

Giuliano Borghi, docente di filosofia politica nelle università di Roma e Teramo. Ha pubblicato studi su Evola, Platone, Nietzsche, il pensiero tragico e la filosofia della crisi.  Si occupa in particolare dei rapporti tra pensiero politico ed economico dal punto di vista dell'antropologia filosofica.

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