domenica 21 gennaio 2024

21 gennaio 1924, morte di Lenin. Che ci sarà mai da commemorare?

 


Non se ne può più, regna la peggiore immaturità politica. Fonte di pericolosità assoluta per la liberal-democrazia. Veniamo ai fatti.

Oggi, a cento anni precisi di distanza, anche a causa della smania mediatica degli anniversari, “ La Repubblica” commemora Lenin, grande rivoluzionario a prescindere, questo il messaggio tra le righe. Mentre sull’altro versante, Veneziani – “La Verità” – lo accusa, anche a ragione, di essere il padre di tutti i totalitarismi.

Qual è il problema? Perché siamo preoccupati? Di Lenin non si dovrebbe più parlare, e da un pezzo. Storici a parte, ovviamente. Parlare politicamente. Cioè considerarlo ancora, nel bene come nel male, una specie di risorsa politica.

Detto altrimenti: un argomento per squalificare l’avversario politico e magari giustificare la linea politica egualitaria o anti-egualitaria del Partito democratico o di Fratelli d’Italia. Però, attenzione, non è soltanto una questione di bassa cucina politica.

Sulla natura totalitaria di Lenin e seguaci ha scritto a suo tempo pagine inesorabili Ignazio Silone. Un grandissimo scrittore che la stessa sinistra, che oggi celebra il respiro rivoluzionario di Lenin, non ha mai digerito. Addirittura qualche anno fa Silone venne dipinto come una spia fascista.

Quanto alla destra, è vero che critica il totalitarismo di Lenin, ma si guarda bene dall’addentare quello di Mussolini. A destra vale tuttora la tesi che il duce fu un dittatore buono. Insomma, nulla a che vedere con il totalitarismo.

Pertanto dietro il culto di Lenin, e di altri truci dittatori, si nasconde l’incapacità di questa destra e di questa sinistra di fare i conti con il liberalismo. Che – ecco il vero punto della questione – ha sempre giustamente ricondotto comunismo, fascismo e nazionalsocialismo nell’alveo totalitarismo: dove meritano di rimanere. Cioè, dove meritano di imputridire tre visioni e pratiche politiche, che, ritenendosi depositarie di una verità totale, escludono, perseguitano, uccidono, chiunque sostenga idee e posizioni contrarie al dogma comunista, fascista, nazionalsocialista.

Il punto massimo di incomprensione del liberalismo è rappresentato da quello che potremmo designare come un processo di rovesciamento dei valori. Molto pericoloso. Ci spieghiamo meglio.

Ai liberali che giustamente ritengono Lenin un portatore insano di totalitarismo, questa destra e questa sinistra, rispondono che anche il liberalismo è totalitario, perché impedirebbe a fascisti, comunisti e nazionalsocialisti di esprimere le loro idee. Cosa che non è del tutto vera. E che, in ogni caso, anche se fosse vera, sarebbe giustificata, dalla giusta volontà di impedire che fascisti, nazionalsocialisti e comunisti ricomincino da capo.

Si opera, come detto, un rovesciamento dei valori. Che inizia con l’equiparazione tra liberalismo e totalitarismo, per poi tuttavia asserire che al totalitarismo liberale, che non sarebbe a fin di bene perché al servizio dei borghesi, quindi nemico di ogni forma di uguaglianza economica, va sostituito il totalitarismo della verità assoluta, comunista o fascista, rappresentato da capi severi ma giusti, dalla parte del popolo o delle classi proletarie, come Hitler e Mussolini, Lenin e Stalin. Insomma, il liberalismo diventa cattivo, il totalitarismo buono. Si chiama, come detto, rovesciamento dei valori.

Ovviamente, le rievocazioni delle figure di Lenin e (mettiamo) Mussolini, si rimbalzano, l'un l'altra, l'accusa di totalitarismo. Il che spiega perché su Lenin “La Repubblica” dice una cosa, “La Verità” un’altra. E qui ritorniamo al totalitarismo come risorsa politica, e non come un marciume che le liberal-democrazie dovrebbe essersi lasciate alle spalle da un pezzo.

E invece, qui il pericolo, si celebra Lenin, profeta della vera uguaglianza o lo si condanna, strizzando l’occhio a Mussolini, figlio del famoso fabbro. O peggio ancora, si incensano un ex seminarista dalla pistola facile come Stalin e  un  ex imbianchino schizofrenico come Hitler. 

Il marciume torna a galla.

Carlo Gambescia

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