Non convince l’idea del ministro Sangiuliano dell’ apposizione, a spese del Ministero, di una targa celebrativa nel luogo dove Gramsci, prossimo alla morte, trascorse i suoi ultimi giorni, cioè la clinica Quisisana di Roma.
Perché? Proprio per le ragioni che egli evoca sommariamente, lanciando con un tweet l’idea di celebrare con “ Antonio Gramsci (…) una delle più grandi personalità intellettuali e politiche del nostro Novecento”. Sicché, prosegue, "ho voluto accogliere l’appello di studiosi e cittadini con una targa commemorativa nel luogo dove si spense”.
Ora, se la targa – cosa che al momento si tace – farà riferimento con precisione al Gramsci logoratosi fisicamente nelle prigioni fasciste, quindi al Gramsci vittima del fascismo, nero su bianco, la scelta celebrativa sarà benvenuta perché andrà nella direzione giusta dei valori antifascisti.
Se però non fosse così, saremmo invece davanti al consueto tentativo di minimizzare la carica totalitaria del fascismo: si accenna a Gramsci senza parlare di tutto il resto. Si chiama mistificazione culturale.
Però, proprio su Gramsci, vanno dette alcune cose che molti lettori comuni ignorano, perché rinviano alla microstoria culturale della Nuova destra anni Settanta-Ottanta, francese e italiana.
Verso la fine degli anni Settanta sulla scia delle riflessioni di Alain de Benoist, caposcuola della Nuova destra francese, in Italia si tornò a parlare di Gramsci, come teorico della conquista del potere culturale, prima di conquistare quello politico, anzi come presupposto del secondo.
Si prendeva spunto dalle pagine dei “Quaderni” in cui Gramsci si appellava alla necessità del lavoro culturale come lavoro rivoluzionario nell’ambito della propaganda politica. Un’attività rivoluzionaria, di tipo professionale, basata sul necessario possesso degli strumenti per agire sulla mentalità sociale.
In fondo Gramsci, seppure in forma meno rozza, condivideva gli stessi principi elaborati da Goebbels: ridicolizzazione del nemico, reiterazione dei principi fondamentali del partito (il “nuovo Principe”), lotta senza pietà, quindi senza andare troppo per il sottile ( sempre secondo la lezione di Machiavelli), a chiunque si opponesse, anche in forma pacifica, a una trasformazione politica e sociale imposta dal corso storico delineato scientificamente da Marx. Idea, quest'ultima, che innerva in modo maniacale i "Quaderni".
Gramsci, e non siamo noi i primi a dirlo, fu un pensatore totalitario. Che quello comunista fosse un totalitarismo dalle buone intenzioni e quello nazionalsocialista dalle cattive, è pura argomentazione ideologica che ignora un fatto preciso: che, quando si sposa una causa totalitaria ( comunista o nazista) le buone intenzioni non bastano mai.
Le idee debenoistiane su Gramsci, come detto, ebbero un certo seguito in Italia, e probabilmente Sangiuliano, nato nel 1962, ne subì il fascino. Il che spiega – ovviamente non in chiave liberale – la sua simpatia per un pensatore, ripetiamo, totalitario. Naturalmente, per il comunista, Gramsci è un fior di pensatore democratico, eccetera, eccetera. Mentre per il fascista, soprattuto se di impianto “nuovo-destro”, anni Settanta-Ottanta, un camerata che ha sbagliato strada politica.
Per scoprirne la carica totalitaria vanno riletti i “Quaderni”, ma soprattutto gli articoli politici di taglio soreliano (prima del 1917) e leninista (dopo). Gramsci, a differenza di Turati, resta il nemico assoluto di ogni forma di riformismo. Il che spiega la bassa stima e l’antipatia umana da lui provata verso Turati, il padre del socialismo democratico italiano.
A dire il vero Sangiuliano di queste dialettiche interne al socialismo italiano tra riformisti e rivoluzionari sa poco o nulla. Dialettiche che tra l’altro influenzarono anche il socialista Mussolini, che stimava la lucidità rivoluzionaria di Gramsci (e questo anche dopo averlo messo in prigione da duce fascista).
Però Sangiuliano ha letto Alain de Benoist e gli epigoni italiani, pertanto considera Gramsci parte del ritratto di famiglia della Nuova destra intellettuale anni Settanta-Ottanta, all'epoca pronta a ridipingere il mondo se non di nero, con i colori dell’ anticapitalismo, dell’ antiliberalismo, e dell’ identitarismo. Allora si diceva ” Nuova destra metapolitica”, proprio per l’importanza assegnata alle idee rispetto alla politica. Quindi “oltre” la politica.
E’ perciò ovvio che oggi non gli convenga parlare in pubblico di queste cose che rimandano alla fronda e alla diaspora missina, sempre da posizioni radicali mai riformiste. Perciò siamo certi che dietro l’idea della targa vi sia anche quella della foto di famiglia, allargata però a Sorel, Gramsci, Mussolini.
Attenzione, ripetiamo, il Gramsci di Sangiuliano, non è un liberale, l’idea della conquista del potere culturale, rinvia non alla tollerante coesistenza di idee differenti, tipica del liberalismo, ma alla conquista di un potere culturale totalitario, tipica del comunismo e del fascismo. Quindi a una metapolitica totalitaria. E, si badi, qualsiasi conflitto, tra comunisti e fascisti, vecchi e nuovi, su chi debba "spacciare" le idee di Gramsci ha il valore di un regolamento di conti tra "clan rivali", l'uno totalitario come l'altro.
Come concludere? Con assoluta tristezza. Perché un personaggio, come Sangiuliano, con questi precedenti e queste idee, oggi è Ministro della Cultura.
Carlo Gambescia
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