Il bello è che oggi “Libero” attacca “ La Repubblica”, per la “santificazione” di Lenin (a proposito, Carlo Gambescia anticipa sempre tutti *, pardon per la botta di egocentrismo…). Cioè “Libero” si atteggia a liberale, con un direttore passato armi e bagagli da Monti alla Meloni… Sì liberali, ma a senso unico.
Per quale ragione? Perché – da ultima la vicenda del Teatro di Roma – “Libero" difende l’occupazione, altrettanto leninista, di tutte le posizioni di potere culturale, dalla Rai ai vari enti, attuata al ritmo del passo dell'oca dalla destra meloniana (o comunque di governo). Che in quella cima del Ministro Sangiuliano, promosso sul campo per meriti missini, ha il suo proconsole nella Terra di Mezzo, finora occupata dalla sinistra.
Ora, attenzione, non si tratta di difendere le posizioni della sinistra, che si vede scalzata, anche in malo modo. Né di discutere sulle qualità organizzative, culturali, attoriali, registiche, eccetera, dei candidati lottizzati, oggi a destra, ieri a sinistra. Il vero problema, anzi lo scandalo, è il leninismo culturale praticato da destra e sinistra.
Per capire, in modo più preciso, di cosa parliamo, diciamo del metodo, si legga la ricostruzione del “Messaggero”, di solito ben informato:
“Non sembrano esserci al momento margini per sanare lo strappo registrato sabato scorso all’interno della Fondazione Teatri di Roma, spaccatasi sulla nomina del nuovo direttore generale: i tre consiglieri indicati da Regione e ministero della Cultura (non erano presenti gli amministratori del Comune di Roma, tra i quali il presidente Francesco Siciliano) hanno scelto Luca De Fusco, adesso alla guida dello Stabile di Catania. Nome non gradito invece al Campidoglio – proprietario degli edifici dei teatri e primo finanziatore con 6,5 milioni di euro – che puntava su Onofrio Cutaia, attuale commissario del Maggio Fiorentino. Una soluzione tra le parti è lontanissima. In quest’ottica, oggi De Fusco, regista napoletano con una spiccata passione per Pirandello e trapiantato nella Capitale da 40 anni, attende che venga formalizzata da un cda sempre più spaccato la sua nomina. Vuole subito iniziare a lavorare, 'perché c’è da mandare entro la fine del mese la richiesta al ministero della Cultura per attivare l’attivazione dei finanziamenti del Fus'. Cioè del fondo unico dello spettacolo, che garantisce ad Argentina, India, Torlonia e dal 2025 anche al Valle 1,8 milioni di euro”. (**)
La cultura teatrale, e non solo, vive in Italia di una specie di reddito di cittadinanza. Ovvio perciò che le varie cariche, soprattutto se direttive, siano lottizzate. Proprio perché ballano i miliardi pubblici. Cioè i fondi portano voti, relazioni, posti di lavoro, potere politico sul territorio.
Pertanto il vero problema non è la nomina di questo o di quello, cioè un problema di colore politico, ma di capire una volta per tutte, che ci si deve laicizzare; rinunciare a tutto: nomine, distribuzione di denaro pubblico, creazione di cordate politiche.
Insomma il vero male è la lottizzazione, che nasce dallo “stato spettacolo”. Uno stato che distribuisce soldi pubblici basandosi sull’idea socialista della cultura e dell’informazione come servizio pubblico: dal piano giornalistico a quello cinematografico, teatrale, eccetera. Una disgrazia concettuale che risale ai tempi di Strehler. Anche se a dire il vero, già gli antichi romani parlavano di panem et circenses.
Per contro, la nuova parola d’ordine dovrebbe essere, per usare un linguaggio che piace alla destra, unica e categorica: privatizzare. Altro che lottizzare
E i posti di lavoro di attori, registi, operatori, giornalisti, eccetera? La solita lagna dei sindacati? Si arrangino. Anche la cultura vada sul mercato. Chi è interessato aprirà il portafogli. Chi no, investirà altrove. Ma, ecco il punto, basta, e per sempre, con il reddito di cittadinanza culturale.
Difficilmente su “Libero” e su altri giornali di destra si potranno leggere cose del genere. Cioè cose liberali, come quelle stiamo sottolineando. Si preferisce il teatrino degli insulti tra la cultura di destra che si dice libera e che accusa quella di sinistra di essere schiava del potere. Che a sua volta accusa la destra di trascurare e opprimere la vera libertà culturale che apparterrebbe, si proclama, solo alla sinistra.
Pure razionalizzazioni verbali rivolte a giustificare posizioni di potere. Per giunta pericolose. Perché dove c’è lo stato spettacolo non c’è libertà, ma solo conformismo verso il potere di destra come di sinistra… Non c’è libertà ma solo occupazione del potere: in pratica, leninismo applicato alla cultura. Niente altro che la famigerata egemonia culturale gramsciana. Detto altrimenti, leninismo tradotto in italiano da Gramsci. Pensatore, quando si dice il caso, omaggiato da Sangiuliano e rivendicato dalla sinistra.
Sicché il cerchio ideologico si chiude. Ma questa è un’altra storia. Di colore rossobruno.
Carlo Gambescia
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