martedì 15 febbraio 2022

Trattare è sempre meglio che sparare?

 


Principio nobilissimo che rinvia al discorso pubblico liberale, il quale, se filosoficamente risale al moderno sviluppo della teoria del contratto politico, storicamente rimanda alle due guerre mondiali, ferocemente combattute da tutte le parti in campo.

“Mai più guerra” e “Trattare è sempre meglio che sparare”, sono i principi che, in teoria, ma non in  pratica, hanno caratterizzato la politica internazionale dopo il 1945. Però le cose non sono così semplici.

Perché? Per la semplice ragione che sull'impervio terreno della pratica  non basta credere culturalmente nella forza contrattuale delle trattative diplomatiche. Le buone intenzioni non bastano, come hanno ben mostrato i  conflitti  avvenuti dopo l’ultima guerra  mondiale:  Corea, Indocina, arabo-israeliano,  Iran-Irak, Golfo 1° e 2°, Serbia e Balcani, ai  confini della Russia, solo per indicarne alcuni tra i principali.

In genere, da alcune migliaia di anni, si contratta – nel senso di attivare le diplomazie – dopo aver vinto sul campo oppure dopo aver perseguito, sempre sul campo, la posizione strategica migliore.

La distinzione fondamentale è tra guerre di conquista e guerre limitate. Per non andare troppo indietro, le guerre settecentesche, rimandano alle guerre limitate, spurie, un misto tra guerra e diplomazia, mezze vittorie, insomma. Quelle napoleoniche rinviano invece alle guerre pure: della ricerca della vittoria completa sul campo, alla quale seguono i trattati, magnanimi o meno.

La Prima guerra mondiale che poteva essere una guerra limitata, per una serie di ragioni, si trasformò in guerra pura, come del resto fu per la Seconda guerra mondiale.

Perciò in teoria, si può anche essere sinceri pacifisti e contrattualisti convinti, però la metapolitica insegna, che è vero che il conflitto e la cooperazione si alternano nella storia, ma che è altrettanto vero che spesso la cooperazione viene dopo il conflitto.

Ovviamente, non si può escludere, che la cooperazione preceda il conflitto, magari evitandolo. Il che però non vale per sempre. Di regola, gli accordi rinviano soltanto la data del suo inizio: le crisi succedutesi nei primi quattordici anni del Novecento, prima dell’esplosione del conflitto mondiale, restano indicative della forza e dei limiti della cooperazione, più o meno pacifica, tra gli stati.

Pertanto la risoluzione pacifica di una crisi dipende dal rapporto, tra volontà di guerra spuria e pura che separa o unisce i contendenti.

Sotto questo aspetto la crisi tra Russia e Ucraina a quale tipo di conflitto si può ascrivere?

Diciamo che sullo sfondo si staglia la questione dell’estensione dei confini della Nato, che confligge con l’altra questione, quella dell’ estensione dei confini sovietici. Sotto la cenere delle dichiarazioni, più o meno retoriche, cova una questione egemonica, tra Oriente e Occidente, allora europeo che risale almeno all’epoca zarista, e tra Russia e Stati Uniti che rinvia alla Guerra fredda.

Siamo davanti a un conflitto sostanziale che non si può risolvere con le sole trattative formali. Sullo sfondo, ripetiamo, si agitano questioni che rimandano alla guerra pura. Quindi, si danno le condizioni per un conflitto vero e proprio.

Ovviamente, la retorica post-Seconda guerra mondiale, evoca le trattative ed eventualmente, ma molto in subordine (e soprattutto non lo si dice), alla guerra spuria, limitata.

Pertanto, le trattative si muovono tra questi due poli: guerra pura e guerra limitata. Sui quali viene riversata, da tutte le parti in campo, la melassa pacifista: “Non saremo noi a cominciare, eccetera, eccetera”.

Se guerra non sarà (pura o spuria), il merito non andrà ascritto all’amore per la pace dei vari contendenti, ma al fatto che le forze in campo (tutte) non si sentono pronte – per varie ragioni – alla guerra pura e limitata.

Ciò quindi significa che il pericolo di una guerra ai confini della Russia o dell’Europa (dipende dal punto di vista), resterà in piedi fino a quando la questione egemonica non sarà risolta in favore di uno dei contendenti.
Attenzione, non parliamo solo della specifica questione ucraina, ma della sfida globale tra russi e americani. L’Europa purtroppo, allo stato delle cose, è una semplice pedina del gioco di qua da campo, come l’Ucraina dall’altro.

Dicevamo all’inizio del discorso pubblico liberale, nobilissimo, che però confligge, purtroppo, con la logica egemonica degli stati. Si rifletta sul punto: da una parte c’è il principio culturale, di per sé giustissimo, di contrattualizzare la volontà di potenza, dall’altra l’inestinguibile necessità sociologica dell’egemonia politica.

Una necessità che se non può essere soppressa può però essere limitata e ricondotta nell’alveo di un politica dell’ equilibrio tra egemonie diverse capaci di equivalersi perché contrattualizzate.

Il problema è che per arrivare al contratto, diciamo al libro, il più delle volte serve la spada.

Qui già si intuisce la domanda: non si potrebbe rinunciare tutti, e per sempre, alla spada, per sedersi intorno a un tavolo, eccetera, eccetera? In teoria sì, in pratica no. Perché la volontà egemonica, e le sue manifestazioni, spurie o pure, come provano storia e sociologia, risulta più forte di ogni desiderio culturale di pace.

Al massimo, si può puntare sull’equilibrio delle forze. La pace armata. Però, sempre instabile.

Anche nel caso di uno stato o impero mondiale, la guerra, ridotta ad azione contro la “criminalità locale”, imporrebbe comunque l’uso  della spada da parte di una specie di “polizia mondiale” dinanzi a una “criminalità” sempre risorgente, come accade oggi all’interno di ogni stato. Quindi sempre di pace armata si tratterebbe.

Infine, se qualcuno attaccasse da un’ altra costellazione, costringendo i popoli della terra a unirsi, per difendersi con la spada, anche in questo ipotetico caso, alcuni stati, per ragioni di egemonia subordinata, si schiererebbero con gli invasori…

Per costruire meno di paio di secoli di Pax romana, durante le dinastie flavia e antonina, ce ne vollero almeno quattro di guerre, anche civili. Ashoka il grande, poi convertitosi al buddismo, consolidò l’Impero Maurya attraverso un bagno di sangue (anche in famiglia). Dopo di che passò alla storia come grande uomo di pace.

E per oggi basta così. Una pena al giorno…

Carlo Gambescia

Nessun commento: