La Corte Costituzionale ha ammesso cinque referendum e bocciato gli altri (*).
Pur avendo le nostre idee sui contenuti dei quesiti, preferiamo affrontare la questione di fondo, formale diciamo: il ruolo contraddittorio del referendum, strumento principe della democrazia diretta, nella democrazia liberale, sede prediletta della democrazia rappresentativa.
A dire il vero abbiamo sempre ritenuto l’ “arma” referendaria come la foglia di fico dietro cui si nasconde, come polvere sotto il tappeto, il cattivo funzionamento del sistema rappresentativo. Sistema, si badi, che costituisce l’esatto contrario di quello referendario. Perciò non è vero che la democrazia a colpi di referendum integri e completi la democrazia rappresentativa.
Per quale ragione? Perché il referendum è la quintessenza della democrazia emotiva, se si vuole nevrotica: degli slogan, delle idee forza, e talvolta del passaggio alle vie di fatto. Per contro, il sistema rappresentativo riassume, o dovrebbe riassumere, la democrazia della ragione: della pacata discussione tra i pro e i contro, confronto che deve sempre precedere la decisione politica. Il referendum rimanda alle piazze, il dibattito al parlamento. Non c’è ponte.
In Italia, per ricordare un referendum, record mondiale di imbecillità emotiva, si votò pro o contro l’uso civile del nucleare, dopo il disastro di Černobyl dovuto, semplicemente, all’obsolescenza edilizia del socialismo reale.
Ovviamente, vinsero i contrari, in preda all’autodistruttiva nevrosi collettiva da pericolo nucleare tout court.
Da ultimo, altro esempio di idiozia politica: il referendum abrogativo sulla diminuzione del numero dei parlamentari: frutto velenoso del populismo, e di quello psichiatrico allo stato puro…
In Italia, per evitare, la “nevrotizzazione” politica da referendum si è introdotto per legge, il filtro della Consulta sull’ammissibilità o meno (legge costituzionale dell'11 marzo 1953, n.1, art. 2).
Per dirla alla buona, altra benzina sul fuoco. Perché non esiste cosa peggiore, in politica, del nascondersi dietro qualcuno, nel caso i giudici: evocando, quando si dice il caso, la natura indipendente del potere giudiziario.
Agendo in questo modo si è sorvolato sul fatto che leggi le fanno i politici: il parlamento. E che quindi è il parlamento che deve intervenire, senza demandare ad altra istituzione decisioni che in realtà sono politiche.
Pertanto cosa succede? Che il parlamento, diciamo il paese legale, viene esautorato dai giudici costituzionali, i quali, a loro volta esautorano, comunque decidano sull’ammissione o meno dei quesiti referendari, una parte, quella soccombente del paese reale, che invece pretende una risposta politica. Come del resto la pretende, la parte che non soccombe.
Decisione presa, da parte dei giudici, scovando i consueti cavilli giuridici, che i non ammessi, per cosi dire, interpretano politicamente come un trucco ai loro danni, e gli ammessi, altrettanto politicamente, come il trionfo – il “loro” – del diritto sul pianeta terra.
In questo modo, si ottengono tre risultati, tutti negativi: 1) si umilia il parlamento, perché giudicato inutile; 2) si sminuiscono i giudici, e in più in generale la democrazia liberale, perché la parte di popolo che vede respinto il quesito si sente tradita, dal parlamento come dai giudici; 3) si accentua il processo di delegittimazione della democrazia rappresentativa e della giustizia costituzionale perché i “vincenti” dinanzi alla corte costituzionale si sentono autorizzati a proporne altri, lungo una spirale referendaria che al ragionamento sostituisce l’emotività.
Un disastro. L’idea di sovranità del popolo sulla quale poggia l’intero sistema politico e costituzionale, non solo italiano, rischia (come del resto sta accadendo) di portare all’autodistruzione del sistema stesso. Come d’altra parte capita a tutte le forme politiche basate sulle buone intenzioni, soprattutto se portate alle estreme conseguenze (si pensi al socialismo reale).
Se l’idea della sovranità popolare, in teoria è affascinante e porta consensi, non significa che la sua applicazione sia indenne dal creare problemi irresolubili come quello dell’integrazione impossibile tra democrazia rappresentativa e referendaria o diretta.
Non si dimentichi mai che l’istituto del referendum resta l’arma prediletta, in chiave plebiscitaria, da tutti i nemici della liberal-democrazia, da Napoleone (I e III) a Mussolini e Hitler.
Abbiamo accennato al cattivo funzionamento delle istituzioni parlamentari. Negli ultimi cinquant’anni la causa del populismo referendario è stata sposata da tutti partiti. Un autentico cupio dissolvi.
Si guarda al facile successo politico, trascurando gli negativi effetti di lunga durata. È vero che il parlamentarismo non ha mai avuto vita facile, soprattutto nell’epoca della democrazia e dei partiti di massa. Tuttavia accettare la logica referendaria significa favorire e affrettare, come detto, l’autodistruzione del sistema liberal-democratico.
E non ci si consoli puntando pigramente sulla natura correttiva della bassa o nulla affluenza una volta indetto il referendum. L’ apatia e la nevrotizzazione della politica sono le due facce della stessa medaglia. Uno psicologo parlerebbe di disturbo bipolare. Un politologo, o meglio un metapolitco, di sindrome di Weimar.
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2022/02/16/referendum-consulta-cannabis-giustizia_e99c2de2-cf85-4311-b59a-471476a8fca1.html
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