La politica, o meglio la metapolitica, ha le sue leggi o costanti legate ai conflitti di potenza. Regolarità che non obbediscono alla retorica di solito usata dagli attori politici per nobilitare e nascondere, talvolta perfino a se stessi, la verità effettuale, per dirla con Machiavelli.
Ecco due esempi in argomento, diciamo attuali.
La destra nazionalista, non solo in Italia, riconosce a Putin il diritto di invadere o comunque di frazionare l’Ucraina in nome del proprio interesse nazionale e delle minoranze russofone. Quindi rivendica l’uso della forza.
L’internazionalismo liberale, condanna Putin perché offende i diritti sovrani di un altro stato, l’Ucraina per l’appunto, aggredendola militarmente. Quindi condanna l’uso della forza.
Chi ha torto? Chi ragione?
In realtà, la questione ucraina è il classico caso in cui, piaccia o meno, la guerra si impone alle parti in campo come la prosecuzione della politica con altri mezzi. Si può rivendicarla, come i sostenitori delle tesi nazionaliste, oppure negarla come i seguaci dei principi internazionalisti, ma resta il convitato di pietra, insomma la presenza incombente.
La Russia, può accampare le sue ragioni, i liberali ne possono avanzare altre. Inutile elencarle: si tratta di strumenti retorici che servono a giustificare precise scelte politiche, nazionaliste e internazionaliste.
Tuttavia, dal momento che la pace, per ragioni culturali e morali oggi dominanti, sembra essere considerata come la scelta migliore, Putin viene giudicato male: il cattivo. Per contro tutti coloro che sostengono la tesi pacifista, sono giudicati positivamente: i buoni.
In realtà, in politica, non ci sono buoni né cattivi ma solo ragioni di potenza, ossia di lotta per l’egemonia, cioè per estendere il proprio potere su un altro attore politico. Un processo che trova il suo termine temporaneo, storicamente temporaneo, solo dinanzi a una potenza superiore. Si può anche parlare di equilibrio tra potenze di forze uguali o quasi. Equilibrio però, che come tale, è sempre instabile, sicché la lotta per l’egemonia, storicamente parlando non ha mai fine. La cristallizzazione politica di un sistema, di un regime, di una istituzione è sempre temporanea, ovviamente, dal punto di vista de tempi storici, quindi anche per secoli.
Un’ultima precisazione oggi i politologi, inchinandosi dinanzi alla vulgata pacifista, preferiscono parlare non più di logica di potenza ma di interessi o preferenza nazionali. Per dirla, con i nonni, se non è zuppa è pane bagnato…
Chiarito questo punto, torniamo alla questione ucraina.
Gli Stati Uniti, non considerandosi minacciati direttamente e non fidandosi degli alleati europei preferiscono temporeggiare. Se l’Ucraina, fosse stata in Centroamerica, gli Stati Uniti avrebbero scelto l’immediata risposta militare, diretta o indiretta.
L’Europa, debole militarmente e divisa al suo interno, si pone solo problemi di natura economica e di budget assistenziale. Di qui la cautela mostrata, se non addirittura il timore verso quelle che sono liquidate come inutili avventure militari. E, quando improcrastinabili, come "missioni di pace", alle quale però mettere fine subito.
Di conseguenza, la scelta delle sanzioni è la foglia di fico per nascondere il proprio disinteresse (Stati Uniti) e l’ impotenza militare (Unione Europea).
Ovviamente sono cose che non si dicono davanti alle telecamere e ai delegati Onu. Sono cose che si mascherano evocando i grandi ideali di pace, eccetera, eccetera.
Putin, che può contare sulla benevola neutralità della Cina (che per ora vede negli Stati Uniti un nemico) e su un’ importante forza militare, quantomeno regionale, può perciò tirare dritto per la sua strada, che come scrivevamo ieri, rinvia alla marcia verso Ovest della tradizione zarista, e prima ancora bizantina. Torna in ballo, se si vuole ragionare per grandi cicli storici di potenza, la riunificazione, certo cosa di lungo periodo, della parte orientale e occidentale dell’antico Impero romano.
Ovviamente, sono cose, tra l’altro tuttora teorizzate da alcuni intellettuali russi, che però non si dicono pubblicamente ( e infatti Putin nega). Cose che si preferisce nascondere dietro la retorica dell’autodeterminazione dei popoli come leva ideale per garantire la pace tra i popoli, eccetera, eccetera. Questa la tesi di Putin.
Si può sostenere, sempre in termini di logica di potenza, che, all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991 (come dopo il Trattato di Brest-Litovsk, stipulato dai bolscevichi con gli Imperi centrali nel marzo del 1918), la Russia venne messa all’angolo, perdendo territorio, potere, risorse, e che ora reagisce (come reagì l’Unione Sovietica nel 1945) recuperando, eccetera, eccetera.
Dal punto di vista delle leggi della politica, si tratta di un’interpretazione che non fa un una piega. Infatti, il vero nodo dell’intera questione è che Putin sa esattamente quello che vuole: l’egemonia sull’Europa. Una scelta in perfetta linea con quelle che sono le leggi della politica, o detto altrimenti della metapolitica.
Per contro, l’Europa e gli Stati Uniti cincischiano, parlano di grandi ideali, ma in realtà non vedono al di là del proprio naso: l’Europa vuole fare solo buoni affari anche a costo di perdere la propria dignità; gli Stati Uniti vivono di sondaggi elettorali e polemiche interne sul politicamente corretto. Manca, di qua come di là dell’Oceano, una autentica visione strategica.
Un lusso che gli Stati Uniti, per ora, si possono permettere, perché la distanza tra Washington e Kiev è di quasi diecimila chilometri. Ma l’Europa no. Perché la distanza tra Bruxelles e Kiev è poco più di duemila chilometri.
Carlo Gambescia
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