Ieri un amico mi accusava di difendere l’indifendibile. Cosa c’è di liberale nelle nostre democrazie? Il mercato è nelle mani di grandi imprese oligopolistiche. Il parlamento, i partiti, il concetto stesso di rappresentanza sono completamenti screditati. Gli apparati statali, infine, controllano capillarmente le nostre vite, come da ultimo, prova l’epidemia, pardon pandemia.
Eppure, alla mia domanda di indicare un’ alternativa politica, economica e sociale, l’amico ha risposto incominciando a navigare verso il regno di utopia.
Spesso mi è capitato di discutere dello stesso problema con altri amici di destra e sinistra, comunisti, fascisti, cattolici, conservatori e progressisti, ecologisti. Chi ha proposto la fine delle proprietà privata, chi un’economia diretta dallo stato, chi un’economia della decrescita.
Inoltre, sul piano politico le ricette sono risultate ancora più irrealizzabili: democrazia diretta, municipale, consigli operai, eccetera, eccetera. Idee demagogiche che conducono inevitabilmente alla dittatura.
Purtroppo, la nostra società piuttosto che di tipo liberaldemocratico é di natura assistenzialista. Il modello condiviso è quello del welfare state, dello stato che vede e provvede, dello stato che pretende di sapere ciò che è bene per il cittadino. Idea che ritorna, in larga parte, anche nelle proposte di riforma.
Invece il liberalismo, politico ed economico lascia che il cittadino decida del proprio bene. Purtroppo, il liberalismo andò fuori corso durante la Prima Guerra Mondiale, quando lo stato entrò nell’economia per non uscirne mai più. Quella fu la svolta epocale.
Gli storici dell’economia e della politica sembrano aver dimenticato la grandissima forza espansiva delle istituzioni liberali nell’Ottocento. Talvolta si perdono in critiche anacronistiche perfino molti storici liberali contemporanei che guardano all’Ottocento liberale, di ieri, con gli occhi del welfarismo, di oggi.
Per tornare all’accusa dell’amico, io non posso assolutamente difendere l’assistenzialismo. Ma, al tempo stesso, non posso condividere soluzioni ancora meno liberali.
In qualche misura, sono un uomo dell’Ottocento, che guarda alla democrazia censitaria, come democrazia del merito, e al libero scambio, come libertà di produrre e commerciare liberamente. Come posso perciò difendere il welfare state del Novecento fondato sull’individualismo assistito e sull’economia socializzata?
Sono un reazionario. Non però nel senso dei reazionari nemici del liberalismo, non sono un paladino della controrivoluzione. Anzi, mi considero “anche” un rivoluzionario perché accetto la logica politica ed economica delle rivoluzioni inglese, americana e francese. Ma non fino in fondo, perché rifiuto quella sovietica.
Un reazionario-rivoluzionario. Augusto Del Noce diceva che in ogni reazionario c’è un rivoluzionario e viceversa…
Qui però torniamo all’Ottocento. Che probabilmente idealizzo. Anche se i tassi di sviluppo economico e politico allora toccati non sono mai stati più raggiunti. Quindi democrazia censitaria e libero mercato provarono di funzionare.
Va anche detto che gli stessi liberali e capitalisti non sapevamo bene cosa fosse il liberalismo, Si parlava di democrazia rappresentativa e libero scambio come strumenti per combattere l’assolutismo politico ed economico di “antico regime”.
Lo spirito liberale, al contrario di oggi, era nell’aria. Non una teoria, ma una pratica sociale che motivava la parte più illuminata della classe dirigente. Come recuperarlo? In una società in cui regna il discredito verso le istituzioni rappresentative e il libero scambio?
Si dirà che la colpa del discredito va imputata alle stesse istituzioni liberali. E qui torniamo all’incipit del nostro articolo: che c’è di liberale nell’assistenzialismo? Nulla.
Carlo Gambescia
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