Innanzitutto ringrazio gli amici lettori che hanno così gentilmente risposto alla mia domanda di ieri sera.
Che dire a mia volta? Credo abbia colto nel segno uno dei commentatori, a proposito del cattolicesimo sociale che sembra caratterizzare il discorso d’insediamento del Presidente Mattarella (*).
Prima però di venire al punto desidero fare una precisazione.
Il discorso sotto il profilo del diritto costituzionale, diciamo “vigente”, è inoppugnabile. Come pure la figura personale e intellettuale del Presidente resta certamente all’altezza dell’incarico . Ci mancherebbe altro
Che cosa non mi piaciuto allora del suo discorso? Proprio il cattolicesimo sociale. Cioè una visione sociale e interventista dello stato, che, se si è esclude forse Luigi Einaudi, ha sempre caratterizzato, per linea politica, la posizione dei presidenti dell’intera storia repubblicana.
Si dirà che essa è nelle cose stesse: il frutto prezioso di una comunione, prima che politica intellettuale, tra presidenti e dettato costituzionale.
Giustissimo. Però come insegnano i grandi maestri del diritto politico ogni costituzione discende “anche” dai rapporti di forza politici, reali, al momento della sua elaborazione. E la nostra Costituzione, sotto questo aspetto, riflette valori liberali (diciamo, in minima parte), ma soprattutto cristiani e socialisti (soprattutto).
Ovviamente si può non essere d’accordo con quel che dico, opponendomi questo o quell’articolo e spostando il discorso sulla forza irresistibile, ieri come oggi, dell’evoluzione dei diritti da individuali a sociali.
Però, è proprio questo il punto. E qui vengo al mio dissenso: dal momento che, come detto, sono un moderato e un realista, non posso non essere contrario a ogni filosofia della storia. Non posso condividere la filosofia racchiusa nella marcia trionfale dei diritti sociali. Filosofia politica, diciamo, sottesa al discorso d’ insediamento del Presidente Mattarella.
Come non avrei neppure condiviso un discorso animato da una filosofia di segno contrario. Diciamo, “antiprogressista”.
In realtà, il problema dei diritti sociali rinvia a una concezione sociologica che ritiene che la trasformazione delle istituzioni debba sempre precedere la trasformazione degli uomini. Il che significa attribuire inevitabilmente allo stato, e di conseguenza al diritto positivo un ruolo propulsivo, trascurando la spontanea e diffusa trasformazione dei costumi che invece rinvia alla concezione che la trasformazione degli uomini debba sempre precedere quella delle istituzioni.
Probabilmente, per dire una banalità, la “verità” è nel mezzo. Penso a una “verità” di natura storica, circostanziale, che riporta al rapporto storicistico tra carte costituzionali, forze sociali e ideologie prevalenti. Che però muta nel tempo, al variare del forze sociali, delle ideologie e così via. Ma questa è un’altra storia.
Ovviamente, quando si privilegia una certa concezione a priori della società, come quelle ricordate, si rischia di attestarsi su una visione parziale della società.
Qui, il limite, diciamo cognitivo-politico, del discorso di Mattarella. Si pensi, ad esempio, allo spazio dedicato, nell’ultima parte, al concetto di dignità (parola ripetuta 18 volte).
In sé concetto nobilissimo, che rinvia, oltre che a una tradizione filosofica importante, che include pensatori, pur molto differenti, come Tommaso e Kant, alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e all’idea di una società giusta, perché capace di trattare gli uomini come fini non come mezzi.
Come non si può essere d’accordo? Però il problema è come attuarla la società giusta… Usando lo strumento del diritto positivo o lasciando fare, per così dire, al lavorio della consuetudine?
Mattarella, risponderebbe, richiamandosi al diritto pubblico, in particolare alla possibilità di trasformare gli uomini attraverso le istituzioni, per accelerare il processo. Altri osservatori invece, come chi scrive, ritengono pericoloso trascurare, per quanto più lenta, la trasformazione dei costumi.
Perché lo stato diritto – e sul punto si faccia attenzione – è sempre il diritto dello stato, stato che può decidere di anticipare come di posticipare le trasformazioni sociali. Il nodo è tutto qui. Nodo che il Presidente Mattarella, cattolico sociale, risolve puntando, diciamo sull’anticipo delle maggioranze parlamentari rispetto alla società nel suo insieme (quale continuo ribollio sociologico di anticipo e di posticipo, di maggioranze e minoranze). Quindi sulla relazione, data come speculare, tra principio politico di maggioranza e trasformazione sociale dei costumi.
In qualche misura, il Presidente Mattarella, cristianissimo, mette il dio immortale, quello dei cieli, perfetto e insondabile, ai voti, confidando in un dio mortale, in terra, che si chiama stato, che però decide dopo libere elezioni e discussione parlamentare: un dio però imperfetto come tutte le cose mortali, anche se sondabile.
Un percorso formalmente ineccepibile, che però elude il problema, qualitativo, della reale commisurazione tra principio di maggioranza legale e maggioranza reale e conseguenti mezzi di trasformazione della realtà che inevitabilmente riconducono all’azione anticipatoria ma imperfetta dello stato.
Certo, mi si può rimproverare di aver dato come cosa scontata l’identificazione, nel cattolicesimo sociale, tra stato e società. Come pure di aver sottovalutato l’ampia legislazione italiana a tutela delle minoranze, non solo politiche, nonché di aver discusso la questione a un livello molto astratto, sottovalutando, le differenze tra i diversi regimi politici e quindi il valore assoluto della democrazia, del principio di maggioranza e dello stesso ruolo dello stato.
Ne prendo atto. Però non cambio idea.
Carlo Gambescia
(*) Qui la versione integrale del Messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Parlamento nel giorno del giuramento: https://www.quirinale.it/elementi/62272
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