venerdì 6 aprile 2018

La riflessione
Legge  Fornero  e dispotismo orientale



I retroscenisti  parlamentari  sottolineano  che  uno  dei punti  d' accordo  tra  Lega e Cinque Stelle  è quello dell’abrogazione delle Legge Fornero con il  relativo  abbassamento dell’età per andare in pensione.  Si vive più lungo, i sessant’anni di oggi sono pari ai  cinquanta di (appena)  ieri, eppure  si fa finta di niente. Si ragiona come se la vita, più lunga e migliore, di uomini e donne  non  fosse mai mutata.  Si chiama politica della persistenza, o se si preferisce della lunga durata. 
Che cosa vogliamo dire? Le cose cambiano intorno agli uomini, ma non cambia la mentalità per affrontarle.  E pur di non prenderne atto, si criminalizza, all’occasione,  il portatore sano del mutamento, nel caso, il Ministro Fornero (e predecessori politici da Dini a Treu). 
Perché questo rifiuto di cambiare?
In primo luogo, perché si perderebbero voti, come detta il  lato demagogico della democrazia,  In secondo luogo, perché quieta non movere et mota quietare, antico principio di conservazione politica, che ci riporta al dispotismo tardo imperiale romano, ma soprattutto orientale (come vedremo). In terzo luogo, l’indicazione di un  capro espiatorio, già bello e  pronto, ricompatta  sempre un corpo politico intorno al nemico comune.
Tutto bene? No, perché resta  il fatto che le cose intorno agli uomini continuano a  cambiare, nonostante la  retorica e i  tatticismi politici.  Di conseguenza,  il principale risvolto negativo della politica della persistenza è la cronicizzazione delle questioni non risolte.  Apparente cronicizzazione, perché, per dirla brutalmente, gli "insoluti" si  incancreniscono,  come nel caso, per attualizzare, dell'inevitabile allungamento dell' età pensionistica.   E quanto più le  questioni  rinviate, o risolte in senso contrario alla necessità dei tempi,  crescono  di  numero,  tanto più le  metastasi di un attendismo, spartitorio, consociativo sempre un passo indietro, si diffondono nell’organismo politico fino a debilitarlo mortalmente.
Diciamo che la politica della persistenza, in termini comparativi, ha dominato per millenni  la storia delle istituzioni politiche, dalle monarche idrauliche e dispotiche in Cina, India, Mesopotamia, eccetera, studiate magistralmente da Karl Wittfogel, allo stato assoluto delle prima modernità europea.  Per poi essere scompaginata dalle rivoluzioni politiche, economiche e scientifiche che hanno introdotto la politica del mutamento, cambiando improvvisamente le regole del gioco.  Una politica, insomma,  del continuo adeguamento del comando alla  realtà che cambia, e incessantemente. Pertanto,  quando più  i politici si  rifiutano  di prendere atto della necessità di assecondare il cambiamento, tanto più  rischiano di assomigliare a   sopravvissuti despoti  orientali.
In questa discrasia tra politica del cambiamento e politica della persistenza va ravvisato forse il maggiore fattore critico -  se si vuole involutivo -  del nostro tempo.
Un’ultima cosa. Quando si parla di  politica della persistenza va assolutamente  evitato l’uso delle  categorie  di destra e  sinistra,  valide per altre ragioni, ma non in questo caso.  Ad esempio la Signora Thatcher, leader dei conservatori britannici, sposò intelligentemente la  politica del cambiamento.  Per contro, molti politici di sinistra, benché non della stessa levatura,  si pensi a figure come Mélenchon in Francia, Iglesias  in Spagna,  Emiliano in Italia,  propugnano politiche della persistenza. Ereditate, e fatte proprie, anche dai movimenti populisti  come  Lega e Cinque Stelle, per auto-definizione al di là della destra e della sinistra. Insomma, sono modalità di approccio politico, assolutamente trasversali.
Inutile osservare, infine, che  dei  dispotici monarchi orientali si è persa memoria.  
Carlo Gambescia