giovedì 1 marzo 2018

Riflessioni
Perché agli italiani non piace la democrazia dei partiti


Il partito è lo strumento moderno, con meno di due secoli di vita, per rappresentare interessi, esprimere ideali, formare e selezionare la classe politica. Non è  un’ istituzione perfetta, anzi spesso il contrario, ma è il solo strumento che consente, per ragioni pratiche,  la rappresentazione politica della volontà popolare, unico principio di legittimità delle democrazie moderne.
In Italia, semplificando, il ruolo dei partiti non è mai stato metabolizzato,  per almeno tre ragioni: il gusto della fazione (del campanile, tipicamente italiano); il mancato consolidamento  di una borghesia liberale e, più avanti,  di un ceto medio, fedele alle istituzioni rappresentative  e non amante, come è stato, delle avventure autoritarie e totalitarie;   la presenza storica di forze politiche totalizzanti (cattolici, socialisti comunisti, fascisti), tese a idealizzare le "trasformazione epocali", puntando sulla democrazia totale (evangelica, utopica, organica, plebiscitaria), ma  ignorando la democrazia reale, quotidiana, necessariamente distinta da compromessi, fondata sull’arte del possibile e dei piccoli passi.  
Sicché in Italia, la critica ai partiti, nella sua versione mainstream,  ha sempre assunto il valore di una critica alla democrazia in quanto tale (e non -  attenzione - di critica alle sue disfunzioni):   o in nome dell’antidemocrazia (si pensi a fascisti e reazionari), o in nome della superdemocrazia (comunisti, socialisti, anarchici, populisti  di varie tendenze). Di qui,  le ricorrenti rappresentazioni  a tinte fosche  della situazione italiana (dal 1861 ad oggi),  come di un paese sempre sull'orlo della rovina. Il catastrofismo  - mai dimenticarlo - è parente stretto, non del riformismo, ma di un rivoluzionarismo da quattro soldi, che ignora le grandi trasformazioni sociali che, nonostante tutto,  hanno cambiato l'Italia, da  terra di mezzadri, braccianti e coloni, denutriti e  senza scarpe,  in  paese di palestrati,  turisti e vacanzieri muniti di regolamentare smartphone.  
Il grillismo -   l'ultimo venuto - non è che il portato della cultura della superdemocrazia immaginaria, che come  storia e sociologia insegnano, rischia sempre di tradursi in antidemocrazia. O comunque,  nell’antiporta della dittatura.  
Ricapitolando, in Italia è mancata una cultura della normalità democratica. O se si preferisce, una visione laica del ruolo dei partiti e del parlamento. Non per niente siamo il paese, che ha inventato, quella, che per auto-definizione, si riteneva, una visione religiosa della politica: il fascismo. Non si definivano forse  i fascisti, come credenti nell’ “Idea”? Addirittura fondarono una Scuola di Mistica... Il “credente” in politica è pericolosissimo:  si pensi al “confusionarismo” economico dei  cattolici in politica, soprattutto di sinistra; al romantico  socialismo  delle riforme di struttura; alla  mitologica terza via, non socialdemocratica, tra capitalismo e socialismo, vaticinata, in ultimo, persino da Berlinguer e Occhetto.  E infine alle fosche  pagine, sporche sangue,  del terrorismo rosso e nero.  
Il Movimento Cinque Stelle, ripetiamo,   non è che l’ultima incarnazione del partito dei “credenti”:  credono nella democrazia perfetta, dell’uno vale uno, sputano veleno sui  partiti e sulle istituzioni parlamentari, vedono cospirazioni ovunque.  E intanto  scalano il potere, con il consenso degli italiani, che come dicevamo, non hanno mai metabolizzato la normalità democratica.
Gianfranco Miglio, grandissimo politologo, ma anche amante delle boutade, nelle conversazioni postprandiali talvolta si lasciava andare, fino al punto di asserire  che la normale dialettica partitica della democrazia rappresentativa  non fosse nel Dna dei popoli mediterranei, così amanti dei capi muscolosi e  stregati dalla possibilità di  cancellare, anche fisicamente, l’avversario politico.   
Il voto di domenica, dispiace ammetterlo, potrebbe confermare la sua tesi. 

Carlo Gambescia