giovedì 15 febbraio 2018

Un eroe dei nostri tempi, Lorenzo Pianezza 




L’eroismo non è più di moda da un pezzo. Anzi, diciamo pure che nell’ epoca  "della ribellione delle masse", classicamente tratteggiata da Ortega quasi un secolo fa,  l’uomo collettivo teme l’eroismo, perché rinvia al singolo e a qualità soggettive (di indole) che non si possono socialmente trasmettere. Di qui rassegnazione, invidia e volpino disprezzo  per ciò che non si può avere, dal momento che l’eroismo, contrariamente  a quanto ritiene  certa vulgata romantica,  non si insegna a scuola: c'è o non c'è. Eroi si nasce. Il che spiega, perché oggi,   in nome di un collettivismo bovino di stampo pacifista, elevato a mediocre  religione del nostro tempo,  l’eroismo è liquidato come pericoloso. Per cavarcela con la  battuta di un celebre comico: "E' tutta invidia!".
A questo pensavamo, ieri, a proposito del giovane studente milanese, Lorenzo Pianezza,  che senza pensarci un attimo, ma con grande freddezza, si è incuneato tra i binari della metropolitana, riuscendo a  salvare la vita  di un  bimbo.  
Infatti,  che tipo di reazioni si sono avute?   Sul posto -  una banchina della metro -   nessuno si è mosso.   A male pena, una persona -   forse due -  ha allungato le braccia per prendere il bambino e aiutare  il giovane a risalire.  Dopo di che,  sui Social,  come  sempre,  ci si è divisi, non sull’eroismo (da pochi, apprezzato come gesto eroico in sé; dalla maggioranza, definito come un gesto normale), ma sulle cause: sulla mamma poco attenta, sull’assenza di guardie giurate, sulla mancanza di  sicurezza, sui pochi investimenti,  quindi sulle colpe della classe politica - nessuno rida -  che discrimina i bimbi in metropolitana.  
Un inutile bla bla bla collettivo, che non porta da nessuna parte e che  normalizza la figura dell’eroe, liquidandola come un epifenomeno della normalità.  O comunque, come qualcosa  -  l’attività eroica -  a cui l’individuo è costretto quando “lo stato non funziona”. Pertanto,  per cosi dire, la filosofia sociale  del nostro tempo tende a reputare eroe chi prende la metropolitana tutti i giorni e non  chi si lanci contro di essa  per salvare un bimbo.  Lo stesso Pianezza -  si rifletta sulla forza del conformismo sociale -  ha definito il suo gesto, non eroico, ma normale... 
In fondo, perché stupirsi? Siamo o non siamo, per tornare al grande Ortega, nell’epoca  "della ribellione delle masse"? E le masse in fondo non amano gli eroi. O meglio, non apprezzano  chiunque, nella passività collettiva quotidiana, mostri improvvisamente tali qualità, rischiando la vita e sottolineando, ecco il punto, l'altrui  "inerzialità".  O se si vuole, mediocrità. 
Come si spiega allora che  le  “masse” tendono  invece  a deificare i personaggi famosi?  Addirittura, come mostra la storia del Novecento,  capi politici che non  nascondono la propria temerarietà?  Fin quando l’eroe,  o chi  si atteggi  tale,  non impone il sacrificio altrui della vita, l’eroismo resta o socialmente neutro o fonte di ricreazione sociale.   Appena però il capo  impone  il sacrificio collettivo, dal momento che l’eroismo non si può insegnare a scuola,  la massa  si ritrae, perché l’eroismo, come abbiamo detto,  è dote individuale.  Il che spiega la stabile ammirazione per le cosiddette élite senza potere (cantanti, attori, conduttori, giornalisti, divulgatori eccetera) che a masse in cerca di capi non impongono sacrifici umani.  Il sognare, per così dire,  è la virtù dei molti, il fare dei pochi.
Insomma, le società eroiche sono le aristocratiche società di individui, di pochi individui: si pensi, solo per fare qualche esempio  al mondo dell’Iliade, alla società cavalleresca e alle Crociate, all’universo delle navi da corsa, al cosmo degli esploratori, inventori e dei primi  capitani d’industria, la "cavalleria economica", come la definì l'economista Marshall.
Il che, e concludiamo, dovrebbe far riflettere sulla natura individualistica che si tende ad attribuire, con grande superficialità euristica, alle nostre società. Che tutto sono, come abbiamo cercato di spiegare,  eccetto che individualistiche.

Carlo Gambescia     

                                                     

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