mercoledì 13 gennaio 2016

Socci, Benigni e Papa Francesco
Basta con il “Processo del lunedì”!

Francesco Papa


Ogni giorno su Papa Francesco ne leggiamo di tutti i colori.  Dal  complimento pagliaccesco di Benigni: «È l’uomo più grande del mondo, questo Papa mi piace tanto tanto, è meraviglioso, grande, umile e rivoluzionario come ha detto Scalfari, e loro tra rivoluzionari si intendono» (*), al sadico  articolo di Socci, dove si snocciolano gli ultimi  dati sul reflusso di pellegrini  e quindi sul  «flop della presunta "primavera" dovuta all' effetto Bergoglio» (**).
Roba da “Processo del lunedì”: per Benigni, l’allenatore va confermato,  per Socci licenziato…  Tutti e due però non   aiutano a capire le cose.  Riflettono posizioni superficiali, legate a ideologie contrapposte, rispettivamente, progressismo e tradizionalismo, tra l’altro, come diceva mio nonno,  all’acqua di rose.    
Ci spieghiamo meglio. Il cattolicesimo non è entrato in crisi con Bergoglio: grosso modo è sulla difensiva dal 1789. Con Papa Francesco si è avuto uno scivolone statistico? Può darsi.  Ma la crisi viene da lontano. Sociologicamente parlando, da quando il monopolio dell’istruzione (e dell’educazione) è passato dallo  Chiesa allo Stato. La socializzazione, via via sempre più laica,  delle nuove generazioni ha inciso sulle vocazioni, sulla pratica, sull’approccio al mondo. E di riflesso, sull’atteggiamento  della Chiesa, che per tradizione storica, come ogni studioso sa bene, qualche volta ha fatto la guerra, anche in grande stile, ma in genere, prudentemente,  in prima battuta, ha sempre cercato l’accordo e la mediazione. Figurarsi con una società libera, dove, pur da posizioni non più egemoni, sia possibile “infilarsi”, anche mediaticamente,  in tutti gli interstizi sociali. Quindi se le cose vanno male - sempre dal punto di vista sociologico -  il problema non è  Papa Francesco  - il monarca, anche assoluto, non governa mai da solo -  ma l’assenza di una classe dirigente  all’altezza della sfida.  Che poi, è lo stesso problema che affligge - semplificando - le istituzioni politiche  “repubblicane” o comunque democratico-liberali post-1789: quello di come garantire il ricambio delle  élites dirigenti, all’interno di un sistema in cui è difficile -  per alcuni impossibile - conciliare democrazia, eguaglianza, meritocrazia, problema, detto tra parentesi, che tuttora ossessiona le scienze politiche “democratiche”. 
Sicché, quanto più la Chiesa si democratizza  tanto più accelera la sua crisi istituzionale. Perché, sulla piano della selezione delle élites finisce per cumulare i difetti di una monarchia  in dissoluzione  con quelli  di una democrazia che non funziona. Tuttavia, la Chiesa indietro non può tornare, perché deve comunque fare i conti con la sua orteghiana circunstancia: il mondo post-1789.  Però al tempo stesso, per le ragioni ricordate, non può spingersi troppo avanti, perché la qualità delle sue élite rischierebbe di peggiorare a vista d’occhio.  Sociologicamente parlando,  un vicolo cieco. 
Sempre che di lassù…

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