Nella riunione di emergenza della Bce si è inventato un nuovo temine: “deframmentazione”.
In realtà il termine proprio nuovo non è perché rinvia, oltre che al linguaggio informatico, a quello bancario, nel senso di un mercato unico dei capitali europei, quindi non frammentato. Qui la metafora, di raggruppare i capitali, come files informatici, su un hard disk rappresentato in ultima istanza dalla Bce, per accrescere, come quando si usa il pc, la produttività in questo caso de mercato unico dei capitali. Come dire? Tutto su un unico hard disk europeo. L’idea in sé non è male.
Però il vero punto è che nella riunione Bce il riferimento assegnato alla frammentazione rinvia a tutt’altra cosa: alla questione dello spread. Insomma, il diavolo è nel dettaglio. Ciò che si vuole evitare è la frammentazione tra lo spread di un paese rispetto allo spread di un altro paese. O quanto meno ci si propone di congelare la frammentazione tra i diversi paesi.
Per inciso, ricordiamo che lo spread indica l’aumento o la contrazione dello scarto, tra due titoli, di cui uno di riferimento. Ad esempio, tra i Btp italiani e i Bund tedeschi (titolo di riferimento). Se lo spread - lo scarto - sale significa che stanno crescendo anche gli interessi che lo stato italiano dovrà pagare ai suoi creditori, quindi più debito pubblico, minore affidabilità, eccetera, eccetera.
Come “deframmentare”? Ricomprando i titoli del debito pubblico in scadenza dei paesi con spread alto o emettendone di nuovi. Quindi altro che crescita della produttività di un mercato unico dei capitali… Si tratta invece di aiutini all'economia pubblica (per alcuni aiutoni).
Inoltre, cosa fondamentale, deframmentare in questo caso significa l’esatto contrario di una politica restrittiva, deflattiva, che invece imporrebbe aumento dei tassi e tagli al debito e alla spesa pubblica.
Si rifletta su un punto, tra l’altro già evidenziato: emettere o ricomprare titoli significa perpetuare la già pesante catena degli interessi che vanno a dilatare un debito pubblico, come nel caso italiano, già oltre i livelli di guardia.
Per dirla alla buona, si vuole pompare altro denaro nell’economia. Che andrà a influire sulla crescita dell’inflazione, che schizzerà, probabilmente già in estate, verso le due cifre.
Solo alcuni giorni fa la Bce aveva dichiarato di aver messo fino all’acquisto di titoli. E invece? Si parla di nuovi strumenti per combattere “la deframmentazione”. Qui il ruolo della parola magica per depistare i predicatori delle politiche deflattive.
Una politica deflattiva implica ovviamente il rialzo dei tassi. Ma impone anche, cosa che non secondaria, l’immissione, via titoli di stato, di altro denaro nell’economia. In questo modo si cerca di impedire che l’inflazione finisca fuori controllo, minando l' affidabilità di un determinato paese.
Per contro, una politica inflattiva, impone l’esatto contrario, fondato sulla speranza, fin troppo rosea, che il peggio passi, è che poi le cose, torneranno a posto da sole.
Infine, una politica né inflattiva né deflattiva, lascia che il mercato fissi da solo, attraverso le leggi della domanda e dell’offerta, la quantità necessaria di moneta alla sua fluidificazione.
Sono tre risposte all’inflazione. Non è che poi ne esistano altre. Diciamo che sono le canoniche. Ognuna di esse ha le sue controindicazioni. Alta inflazione la prima, stagflazione la seconda, stagnazione la terza.
Con una differenza di fondo.
Nel caso delle politiche inflattive e deflattive i tempi di recupero sono lunghi. Per contro, la politica né inflattiva né deflattiva, dopo lo scossone iniziale che elimina il marciume, consente all’economia di ripartire. Lo sviluppo del capitalismo, soprattutto nel Novecento, prova infatti che quanto più le autorità monetarie e politiche hanno interferito nell’economia, tanto più la durata della crisi si è allungata, a volte sfociando addirittura in guerre, si fa per dire, “riequilibratorie”: dopo la guerra c’è il dopoguerra, la ricostruzione, eccetera,
Comunque sia, l’interventismo monetario e politico-economico sui titoli viene difeso dalla politica.
Oggi si distinguono in quest’opera i regimi welfaristi, di taglio liberalsocialista. Perché – come si ripete – l’inflazione, anzi l’inflazionismo, consente di conservare il consenso politico: si alza una specie di asticella che permette a tutti i ceti sociali di vivere come prima, o quasi… In realtà, si gioca sulla distinzione tra potere d’acquisto nominale e reale, ovviamente in chiave di illusione monetaria. Sembra che nulla cambi e invece… Si fa così perché si considera la stagnazione più pericolosa dell’inflazione perché, altro mantra politico, si ritiene che la stagnazione porti acqua al mulino sociale delle forze antisistemiche e populiste.
Insomma, con l’inflazione si contrasterebbe – semplificando – il fasciocomunismo. Teoria più politologica che economica, nota pure come sindrome di Weimar. Smentita però dalle teorie inflazioniste sposate dal nazismo, come pure da molti regimi populisti in America latina.
E per oggi è tutto. Buona giornata.
Carlo Gambescia
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