giovedì 16 giugno 2022

Una parola economica nuova: deframmentazione

 


Nella riunione di emergenza della Bce si è  inventato un nuovo temine: “deframmentazione”.

In realtà  il termine  proprio nuovo non è perché rinvia, oltre che al linguaggio informatico,  a quello bancario, nel senso di un mercato unico dei capitali europei, quindi non frammentato. Qui la metafora,  di raggruppare i capitali, come files  informatici, su un hard disk rappresentato in ultima istanza dalla Bce, per accrescere, come quando si usa il pc, la  produttività  in questo caso de mercato unico dei  capitali.  Come dire? Tutto su un unico hard disk europeo.  L’idea in sé non è male.

Però il  vero punto è che  nella  riunione Bce   il riferimento assegnato  alla frammentazione rinvia a tutt’altra  cosa: alla questione dello spread. Insomma, il diavolo è nel dettaglio.   Ciò che  si  vuole evitare   è la frammentazione   tra lo spread di un paese  rispetto allo spread di un altro paese. O quanto meno ci si propone di congelare  la frammentazione tra i diversi paesi.  

Per inciso,  ricordiamo che lo spread  indica l’aumento o la contrazione dello scarto, tra due titoli, di cui uno di riferimento.  Ad esempio,  tra i Btp italiani e i Bund tedeschi (titolo di riferimento).   Se lo spread - lo scarto -  sale significa  che stanno crescendo anche gli interessi che lo stato italiano dovrà  pagare ai suoi creditori, quindi più debito pubblico, minore affidabilità, eccetera, eccetera.

Come “deframmentare”?  Ricomprando i titoli del  debito pubblico  in scadenza dei paesi con  spread alto  o emettendone di  nuovi.  Quindi altro che crescita della  produttività di un mercato unico dei capitali… Si tratta invece  di aiutini  all'economia pubblica (per alcuni aiutoni).

Inoltre, cosa fondamentale, deframmentare  in questo caso  significa  l’esatto contrario di una politica restrittiva, deflattiva, che invece imporrebbe aumento dei tassi e tagli  al debito e alla spesa pubblica.

Si rifletta su un punto, tra l’altro già evidenziato:  emettere o ricomprare titoli significa perpetuare la già pesante catena degli interessi che vanno  a dilatare  un debito pubblico, come nel caso italiano, già oltre i livelli di guardia.

Per dirla alla buona,  si vuole  pompare  altro  denaro nell’economia.  Che andrà a influire sulla crescita dell’inflazione, che schizzerà, probabilmente già in estate,  verso le due cifre.

Solo alcuni giorni fa  la Bce aveva  dichiarato di aver messo fino all’acquisto di titoli.  E invece?  Si  parla di nuovi strumenti per combattere  “la deframmentazione”.  Qui il ruolo della parola magica per depistare i predicatori delle politiche deflattive.

Una politica deflattiva  implica ovviamente  il rialzo dei tassi.  Ma impone  anche, cosa che non secondaria, l’immissione, via  titoli di stato, di altro denaro nell’economia.   In questo modo si cerca di  impedire  che   l’inflazione  finisca fuori controllo,   minando l' affidabilità di un determinato paese.

Per contro, una politica inflattiva, impone l’esatto contrario, fondato sulla speranza, fin troppo rosea,  che il peggio passi, è che poi le cose, torneranno a posto da sole.

Infine, una politica né inflattiva né deflattiva,  lascia che il mercato fissi da solo, attraverso le leggi della domanda e dell’offerta,  la quantità necessaria di moneta alla sua fluidificazione.

Sono tre risposte all’inflazione.  Non è che poi ne esistano altre.  Diciamo che sono le canoniche.   Ognuna di esse ha le sue controindicazioni.  Alta inflazione la prima, stagflazione la seconda,  stagnazione la terza.

Con una differenza di fondo.

Nel caso delle politiche inflattive e deflattive  i tempi di recupero sono lunghi. Per contro, la politica né inflattiva né deflattiva, dopo lo scossone iniziale che elimina il marciume, consente all’economia di ripartire.  Lo sviluppo del capitalismo, soprattutto nel Novecento,   prova infatti  che  quanto più le autorità monetarie e politiche hanno interferito nell’economia, tanto più la durata della crisi si è allungata, a volte sfociando addirittura in guerre, si fa per dire, “riequilibratorie”:  dopo la guerra c’è il dopoguerra, la ricostruzione, eccetera,

Comunque sia, l’interventismo monetario e politico-economico sui titoli  viene difeso  dalla politica.

Oggi si distinguono in quest’opera  i regimi welfaristi, di taglio liberalsocialista.  Perché –  come  si ripete – l’inflazione,  anzi l’inflazionismo,  consente di  conservare il consenso politico: si alza una specie di asticella che permette a tutti i ceti sociali di vivere come prima, o quasi… In realtà,   si gioca sulla  distinzione tra potere d’acquisto nominale  e reale, ovviamente  in chiave di illusione monetaria.  Sembra che nulla cambi e invece…  Si fa così perché  si considera  la stagnazione più pericolosa dell’inflazione perché, altro mantra politico,   si ritiene  che la stagnazione porti acqua al mulino sociale delle forze antisistemiche e populiste.

Insomma, con l’inflazione si contrasterebbe – semplificando – il fasciocomunismo.   Teoria   più politologica che economica, nota pure  come sindrome di Weimar.   Smentita però dalle teorie inflazioniste sposate dal nazismo, come pure  da molti regimi populisti in America latina.

E per oggi è tutto. Buona giornata.

Carlo Gambescia

Nessun commento: