Una raccolta di recensioni può essere buona o cattiva opera. Dal momento che la resa finale dipende dalle capacità e dalla cultura del recensore.
Sotto questo aspetto da Aldo La Fata, principale animatore e organizzatore del pensiero metapolitico italiano, non ci si poteva aspettare di meglio. Per dirla alla buona, Aldo – che chiamiamo una tantum per nome perché è un amico – resta una certezza. Un macinatore implacabile di letture su letture.
Inoltre, cosa che lo distingue dalle mezze tacche del copia e incolla, La Fata è uno studioso che non fa mai pesare la sua erudizione sull’interlocutore: un uomo colto e tranquillo. Probabilmente perché sorretto da una grande fede in Dio. Sicché, si può permettere, e con ragione (almeno dal suo punto di vista), di contemplare i secoli dall’alto. Ma non è neppure sprovvisto, come vedremo più avanti, di una altrettanto grande umiltà cognitiva.
Nella luce dei libri. Percorsi di lettura di un “cavaliere errante” (Solfanelli *) quindi non delude. Di più: siamo al cospetto di un testo che dispiace chiudere, una volta giunti, e in un soffio, all’ultima pagina.
Si tratta, come dicevamo, di una raccolta di scritti, in particolare recensioni a volumi che ruotano intorno a grandi questioni. Ad esempio, solo per fare un breve elenco: il rapporto tra metafisica e metapolitica; la relazione tra conoscenza e religione; l’interazione tra fede e filosofia della storia; i legami tra simbolismo e realismo cognitivo. Testi usciti tra il 1999 e il 2021 sulla rivista “Metapolitica” e sul sito web, “Il Corriere metapolitico”, che ora dà il nome anche a una notevole rivista quadrimestrale, diretta sempre da Aldo La Fata.
Quel che subito colpisce è la capacità di giudizio: quell’andare subito al nocciolo della questione, dopo un preliminare quanto sempre giustificato approfondimento bibliografico. Sotto questo aspetto informativo le recensioni di La Fata sono una miniera d’oro.
La Fata scava nelle profondità storiche, senza però mai trascurare le coordinate. Che nel suo caso rimandano alla verticalizzazione del pensiero: dio esiste. E prima ancora all’ esame di coscienza del letterato (per dirla con un grande critico, morto giovanissimo in guerra, la Prima, oggi dimenticato): esiste però anche l’uomo.
In sintesi, trascendente e immanente comunicano sempre, e in modo naturale. Qualche esempio:
[Mircea Eliade:] “Un uomo di genio, e tale fu Mircea Eliade, è sempre qualcosa di più di quello ch’egli sa di se stesso o di quello che gli altri ne pensano. È vero che Egli scelse l’avventura e il mare aperto piuttosto che gli approdi definitivi e che preferì la tensione spirituale e la ricerca costante piuttosto che la stabilità di una fede. Ma è anche vero che si riconobbe naufrago e con un bisogno a volte lancinante di tornare a casa” (p.19).
[Benedetto Croce] “Quella Chiesa che aveva coraggiosamente e per ispirazione saputo far suoi, adattandoli e rinnovandoli dal di dentro, tradizioni, culture e principi a lei lontanissimi, ora sembrava a Croce languire in una sorta di rigor mortis”.
Nonostante ciò, non mancava a Croce, in particolare nei suoi ultimi anni,
“la coscienza finalmente acquisita che la civiltà per essere tale non può fare a meno, come scriveva nel 1942, da Sorrento ‘ di un riferimento continuo a quello che ci supera e che è eterno’ ” (p.23).
Sono solo due esempi di un cristianesimo verticale e orizzontale al tempo stesso, che secondo La Fata, connota ogni anima “naturaliter Christiana”. Un cristianesimo che guarda verso l’alto, senza trascurare le sue radici in basso. Un cristianesimo frutto di un’introspezione che eleva e unisce, non dimentico delle limitatezze ironiche della natura umana. Una visione totale, non totalitaria che si fa metafisica e metapolitica.
Il lettore non si spaventi per la natura ardua dei temi trattati: l’approccio di Aldo La Fata, non è mai esegetico nel senso specialistico e restrittivo del termine. Inoltre lo stile espositivo è sempre brillante (altro suo dono).
Però, ecco il punto, in ultima istanza, piaccia o meno, tra un approccio storicistico, se si vuole materialistico-orizzontale, e un approccio di tipo spirituale-verticale, egli privilegia quest’ultimo. Insomma tra alto e basso c’è comunicazione, però l’ultima parola rinvia all’Assoluto, con l’iniziale maiuscola. Si legga quanto egli scrive, in chiave dirimente, nella notevole recensione a un libro di G.G. Stroumsa. Vi si affronta la questione del rapporto tra esoterismo giudaico e cristianesimo delle origini.
“ Ci permettiamo di far osservare allo studioso israeliano che l’origine di certe idee e dottrine si trova nell’esperienza spirituale stessa. La vera matrice è trascendente e non storica. Inoltre, non possiamo accettare l’idea che l’esoterismo sia semplicemente il risultato di una giustapposizione di vari elementi di diversa provenienza combinati insieme (pertanto né più né meno che un sincretismo culturale). È un’idea, quest’ultima, che va sempre più imponendosi, ma che dovrebbe ripugnare a ogni autentico spirito religioso, giacché si tratta di un modo come un altro per oltraggiare la Verità che quando è tale scaturisce sempre dalle profondità dell’anima e non da processi mentali e culturali (pp. 51-52, corsivo nel testo).
Insomma, come La Fata scrive più avanti, a proposito del messianesimo politico,
“la storia non può generare metastoria e (…) la metastoria non può dissolversi nelle leggi della storia” (80).
Di qui il necessario compito di destoricizzare la realtà, imponendo l’importanza di un Assoluto, che però non va mai confuso con improbabili età dell’oro situate nel passato o prossime venture utopie, articolate in chiave secolare. Detto altrimenti: materialismo storico e antropologico come vicolo cieco di un realismo però necessario, che può trovare la sua salvezza solo rivolgendo gli occhi al cielo. Attenzione, rivolgere nel senso di orientare, di guardare in una direzione. Senza però ignorare tutto il resto. Perché, sebbene nella certezza dell’impegno spirituale, la corda cognitiva di La Fata resta sospesa tra la storia e metafisica, tra politica e metapolitica: un equilibrio difficile ma coraggioso tra Terra e Cielo.
Fermo restando che il Cielo resta il Cielo… Insomma, che non è un travestimento, per quanto abile, dell’immanente. Convinzione di cui La Fata non fa mai mistero. Come si può leggere.
“La nostra metapolitica che ereditiamo da Silvano Panunzio è ‘all’insegna dell’oltre”, mentre la metapolitica di Carlo Gambescia è all’ insegna dell’ hic et nunc e cioè del “qui ed ora’. I linguaggi, i valori disciplinari, dottrinari e teorici dei due punti di vista sono assai diversi anche se entrambi motivati da una sincera ricerca della verità e del bene comune. Per noi la politica non si risana con un’analisi sociologica orizzontale, ma offrendo ad essa unsupplemento di senso verticale. E questo supplemento di senso non richiede una nuova disciplina o un nuovo approccio epistemologico, ma una conversione del suo significato in senso metafisico e spirituale” (p.118, corsivi nel testo).
Ne prendiamo atto. Anche se, come in seguito ammette lo stesso La Fata, quasi ammonendoci, la strada della metapolitica è irta di ostacoli, soprattutto quando si rinuncia a ogni tipo di teodicea: di spiegazione del rapporto tra la giustizia divina e l’ingiustizia del mondo. Scrive La Fata:
“ Su questo punto la metapolitica di Silvano Panunzio che crede, per così dire in un ‘Dio interventista” si discosta notevolmente dalla metapolitica di Carlo Gambescia che occupandosi delle sole ‘regolarità sociali’ lascia Dio alla teologia o alla metafisica, riducendolo sostanzialmente ad un ‘inoperante’ almeno sul piano storico” (pp. 154-155).
Giusto. Però, forse, un canale di trasmissione, comunicazione, collegamento, tra le due linee (verticale e orizzontale) della metapolitica, può essere rappresentato da quella “Metafisica del paradosso”, sviluppata in due volumi da Bruno Bérard, alla quale La Fata dedica pagine interessantissime. Ascoltiamolo.
“ Il secondo volume mette a tema la metafisica del paradosso’ precisando cosa si debba intendere per ragione, intelligenza e conoscenza e quali rapporti intercorrano tra credere, sapere, conoscere. In seguito si entra nel merito di quella che l’autore definisce ‘conoscenza paradossale’ che sconfina nell’intuizione sovrarazionale e nell’esperienza mistica. Bérard dimostra che in tutti i campi del sapere nessuno escluso, non abbiamo altro che una lunga serie di conoscenze e conclusioni paradossali, sofismi, paralogismi, idiosincrasie, contraddizioni, petizioni di principio, ragionamenti imperfetti, dimostrano da una parte, l’impossibilità umana di pervenire a una conoscenza certa, e dall’altra, l’inanità del pensiero sistematico autoreferenziale” (pp. 159-160).
Non si può non concordare. Siamo nell’ambito dell’eterogenesi dei fini sociali. Detto altrimenti, che cosa c’è di più paradossale, di ironico se si vuole, del perseguire il bene sul piano delle intenzioni, per conseguire il male su quello dei fatti? La buona metapolitica non può fare a meno di ammettere il ruolo degli effetti imprevisti di ricaduta sociale delle scelte degli uomini. Insomma nell’agire sociale, le buone intenzioni non sono sufficienti. Verità sgradevole, ma verità.
Dietro tale accettazione non può che esservi una grande umiltà cognitiva, come necessario punto di raccordo, per chi vi creda, tra le linee verticali e orizzontali della metapolitica. Un’ umiltà capace di nascere dalla coscienza, naturaliter della cose. Si chiama, ripetiamo, umiltà cognitiva. E crediamo che Aldo La Fata, anima Christiana, non ne sia privo. Anzi.
Certo, un’umiltà che per il credente rinvia all’opera di Dio, mentre per il non credente, si possono usare i versi di Montale:
“La storia non è poi/ la devastante ruspa che si dice./ Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli./ C’è chi sopravvive.” (“La storia”, Satura I).
Si dirà che sopravvivere non è vivere. Certamente. Però l’umiltà cognitiva, semplicemente naturaliter, per scoprire i pertugi della storia e della sociologia così ben versificati da Montale, è già qualcosa.
Il fatto che il punto di intersezione tra le due linee della metafisica e della fisica (verticale e orizzontale) sia opera o meno di Dio resta un mistero. Sul punto La Fata, probabilmente concorderà.
Insomma, siamo dinanzi a un misterioso agire che almeno a nostro avviso rinvia, come credenza sociale, alla sfera della fede, del trascendente e, un gradino sotto, del sacro.
Fede che vi può essere come non vi può essere. Resta invece importante l’umiltà cognitiva, come consapevolezza, sul piano profano (due o tre gradini sotto il sacro…), del paradosso storico e sociologico.
Del resto nel Vangelo di Matteo, non si legge forse, tra gli insegnamenti del Cristo, quel “Beati gli umili, perché a loro appartiene il Regno dei Cieli”?
Carlo Gambescia
(*) Aldo La Fata, Nella luce dei libri. Percorsi di lettura di un “Cavaliere errante”, Solfanelli, Chieti 2022, pp. 192, euro 14,00 (https://www.edizionisolfanelli.it/nellalucedeilibri.htm ).
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