sabato 18 giugno 2022

L’umiltà cognitiva di Aldo La Fata


Una raccolta di recensioni  può essere  buona o cattiva opera. Dal momento che la resa finale dipende dalle capacità e dalla cultura del recensore.

Sotto questo aspetto da  Aldo La Fata, principale animatore e organizzatore del pensiero metapolitico italiano,  non ci si poteva aspettare di meglio. Per dirla alla buona, Aldo –   che chiamiamo una tantum  per nome  perché è un amico –  resta  una certezza. Un macinatore implacabile di  letture su letture.

Inoltre, cosa che lo distingue dalle mezze tacche del copia e incolla,  La Fata è uno studioso che non fa mai pesare la sua erudizione sull’interlocutore: un uomo colto e  tranquillo. Probabilmente perché sorretto da una grande fede in Dio. Sicché, si può permettere, e con ragione (almeno dal suo punto di vista), di contemplare i secoli dall’alto.  Ma non è neppure sprovvisto, come vedremo più avanti,  di una altrettanto grande umiltà cognitiva.

Nella luce dei libri. Percorsi di lettura di un “cavaliere errante” (Solfanelli *) quindi  non delude. Di più: siamo al cospetto di  un testo che dispiace chiudere, una volta  giunti, e in un soffio, all’ultima pagina.

Si tratta, come dicevamo, di  una raccolta di scritti, in particolare recensioni  a  volumi  che   ruotano  intorno a grandi questioni.  Ad esempio, solo per fare un breve elenco: il  rapporto tra  metafisica e  metapolitica; la  relazione  tra conoscenza e religione;  l’interazione tra  fede e filosofia della storia; i  legami tra  simbolismo e  realismo cognitivo.  Testi  usciti tra il 1999 e il 2021 sulla rivista “Metapolitica” e sul sito web, “Il Corriere metapolitico”, che ora dà  il nome anche  a una notevole  rivista quadrimestrale, diretta sempre da Aldo La Fata.

Quel che subito colpisce è la capacità di giudizio: quell’andare subito al nocciolo della questione, dopo un preliminare quanto sempre giustificato approfondimento bibliografico. Sotto questo aspetto informativo le recensioni di La Fata  sono una miniera d’oro.

La Fata scava nelle profondità storiche,  senza però mai  trascurare le coordinate. Che nel suo  caso rimandano  alla  verticalizzazione del pensiero:  dio esiste.  E prima ancora all’ esame di coscienza del letterato (per dirla con un grande critico, morto  giovanissimo in guerra, la Prima,  oggi dimenticato): esiste  però anche l’uomo.

In sintesi,  trascendente e  immanente comunicano sempre, e in modo naturale.  Qualche esempio:

[Mircea Eliade:] “Un uomo di genio, e tale fu Mircea Eliade, è sempre qualcosa di più di quello ch’egli sa di se stesso o di quello che gli altri ne  pensano. È vero che Egli scelse l’avventura e il mare aperto piuttosto che gli approdi definitivi e che preferì la tensione spirituale  e la ricerca costante  piuttosto che la stabilità di una fede. Ma è anche vero  che si riconobbe naufrago e con un bisogno a volte lancinante di tornare a casa” (p.19).

[Benedetto Croce] “Quella Chiesa  che aveva coraggiosamente e per ispirazione saputo far suoi, adattandoli e rinnovandoli dal di dentro, tradizioni, culture e principi a lei lontanissimi, ora sembrava a Croce languire in una sorta di rigor mortis”.

Nonostante ciò, non  mancava a Croce, in particolare nei suoi ultimi anni,

“la coscienza finalmente acquisita che la civiltà per essere tale non può fare a meno, come scriveva nel 1942,  da Sorrento ‘ di un riferimento continuo a quello che ci supera e che è eterno’ ” (p.23).

Sono solo due esempi di un cristianesimo verticale e orizzontale al tempo stesso,  che secondo  La Fata, connota  ogni   anima  “naturaliter Christiana”.  Un cristianesimo che guarda verso l’alto,  senza trascurare le sue radici  in basso. Un cristianesimo  frutto  di   un’introspezione che  eleva e unisce, non dimentico delle limitatezze ironiche della natura umana. Una visione totale, non totalitaria  che si fa metafisica e metapolitica.

Il lettore non si spaventi per la natura ardua dei temi trattati: l’approccio di  Aldo  La Fata, non  è  mai esegetico nel senso specialistico e restrittivo  del termine.  Inoltre lo stile espositivo è sempre brillante (altro suo dono).

Però, ecco il punto, in ultima istanza, piaccia o meno,   tra un approccio storicistico, se si vuole materialistico-orizzontale,   e un approccio di tipo spirituale-verticale, egli privilegia quest’ultimo. Insomma tra alto e basso c’è comunicazione, però l’ultima parola rinvia  all’Assoluto, con l’iniziale maiuscola.  Si legga quanto egli  scrive, in chiave dirimente,  nella notevole  recensione a un  libro di G.G. Stroumsa. Vi si affronta la questione del rapporto tra esoterismo giudaico e cristianesimo delle origini.

“ Ci permettiamo di far osservare allo studioso israeliano che l’origine di certe idee e dottrine si trova nell’esperienza spirituale stessa. La vera matrice  è trascendente e non storica.  Inoltre, non possiamo accettare l’idea che l’esoterismo sia semplicemente il risultato di una giustapposizione di vari  elementi di diversa provenienza combinati insieme (pertanto né più né meno  che un sincretismo culturale).  È un’idea, quest’ultima,  che va sempre più imponendosi, ma che dovrebbe ripugnare a ogni autentico spirito religioso, giacché  si tratta di un modo come un altro per oltraggiare la Verità che quando è tale scaturisce sempre dalle profondità dell’anima e non da processi mentali  e culturali (pp. 51-52, corsivo nel testo).

Insomma, come La Fata scrive più avanti, a proposito del messianesimo politico,

“la storia non può generare metastoria e (…) la metastoria non può dissolversi nelle leggi della storia” (80).

Di qui il necessario  compito di destoricizzare  la realtà, imponendo l’importanza di un  Assoluto,  che però  non  va  mai  confuso con improbabili età dell’oro situate nel passato o prossime venture utopie,  articolate   in chiave secolare. Detto altrimenti:  materialismo storico e antropologico come vicolo cieco di un realismo però necessario, che può trovare la sua salvezza solo  rivolgendo  gli occhi al cielo. Attenzione, rivolgere nel senso di orientare, di guardare in una direzione. Senza però ignorare tutto il resto. Perché, sebbene nella certezza dell’impegno spirituale,  la corda cognitiva  di La Fata resta sospesa tra la storia e  metafisica, tra politica e metapolitica:  un equilibrio difficile ma coraggioso tra Terra e Cielo.

Fermo restando che il Cielo resta il Cielo… Insomma, che non è un travestimento, per quanto abile, dell’immanente. Convinzione di cui La Fata non fa mai mistero. Come si può leggere.

“La nostra metapolitica che ereditiamo da Silvano Panunzio è ‘all’insegna dell’oltre”, mentre la metapolitica di Carlo Gambescia è all’ insegna dell’ hic et nunc e cioè del  “qui ed ora’. I linguaggi, i valori disciplinari,  dottrinari e teorici dei due punti di vista sono assai diversi anche se entrambi motivati da una sincera ricerca della verità e del bene comune. Per noi la politica non si risana con un’analisi sociologica orizzontale, ma offrendo ad essa unsupplemento di senso verticale. E questo supplemento di senso non richiede una nuova disciplina o un nuovo approccio epistemologico, ma una conversione del suo significato in senso metafisico e spirituale” (p.118, corsivi nel testo).

Ne prendiamo atto.   Anche se, come in seguito ammette lo stesso La Fata, quasi  ammonendoci, la strada della metapolitica  è irta di ostacoli,    soprattutto quando si rinuncia  a ogni tipo di  teodicea: di spiegazione del rapporto tra la giustizia divina e l’ingiustizia del mondo. Scrive La Fata:

“ Su questo punto la metapolitica di Silvano Panunzio che crede, per così dire  in un ‘Dio interventista” si discosta  notevolmente  dalla metapolitica di Carlo Gambescia che occupandosi delle sole ‘regolarità sociali’ lascia  Dio alla teologia o alla metafisica, riducendolo  sostanzialmente ad un ‘inoperante’ almeno sul piano storico” (pp. 154-155).

Giusto. Però, forse,   un canale di trasmissione, comunicazione, collegamento, tra le due linee (verticale  e orizzontale)  della metapolitica,  può  essere rappresentato  da quella  “Metafisica del paradosso”, sviluppata in due volumi  da Bruno Bérard, alla quale La Fata dedica pagine interessantissime.  Ascoltiamolo.

“ Il secondo volume mette a tema  la metafisica  del paradosso’ precisando cosa si debba intendere  per ragione, intelligenza e conoscenza e quali rapporti intercorrano tra credere, sapere, conoscere. In seguito si entra nel  merito  di quella che l’autore definisce ‘conoscenza paradossale’ che sconfina nell’intuizione sovrarazionale  e nell’esperienza mistica. Bérard dimostra che in tutti i campi del sapere nessuno escluso, non abbiamo altro  che una lunga serie di conoscenze e conclusioni paradossali, sofismi, paralogismi, idiosincrasie, contraddizioni, petizioni di principio, ragionamenti imperfetti, dimostrano da una parte, l’impossibilità umana di pervenire a una conoscenza certa, e dall’altra, l’inanità del pensiero sistematico autoreferenziale” (pp. 159-160).

Non si può non concordare.  Siamo nell’ambito dell’eterogenesi  dei fini sociali.  Detto altrimenti, che cosa c’è di più  paradossale, di ironico se si vuole,  del perseguire il bene sul piano delle intenzioni, per conseguire il male su quello dei fatti?   La  buona  metapolitica non può fare a meno di ammettere il ruolo degli effetti imprevisti di ricaduta sociale delle scelte degli uomini. Insomma nell’agire sociale, le buone intenzioni non sono sufficienti. Verità sgradevole, ma verità.

Dietro tale accettazione  non può che esservi  una grande  umiltà cognitiva, come necessario punto  di raccordo, per chi vi creda,   tra le linee  verticali e orizzontali della metapolitica.  Un’ umiltà capace di nascere  dalla coscienza, naturaliter della cose. Si chiama, ripetiamo,  umiltà cognitiva. E crediamo che Aldo La Fata, anima Christiana, non ne sia privo. Anzi.

Certo,  un’umiltà che   per il credente rinvia all’opera di  Dio,  mentre per il non credente, si possono usare i versi di Montale:

La storia non è poi/ la devastante ruspa che si dice./ Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli./ C’è chi sopravvive.” (“La storia”, Satura I).

Si dirà che sopravvivere non è vivere. Certamente.  Però l’umiltà cognitiva, semplicemente naturaliter, per scoprire i  pertugi della storia e della sociologia così ben versificati da Montale,  è già qualcosa.

Il  fatto che il punto di intersezione tra le due linee della metafisica e della fisica (verticale e orizzontale)  sia opera o meno  di Dio  resta un mistero. Sul punto La Fata, probabilmente concorderà.

Insomma, siamo dinanzi  a un misterioso agire che  almeno a nostro avviso rinvia, come credenza sociale,  alla sfera  della fede,  del trascendente e,  un  gradino sotto, del sacro.

Fede  che vi può essere come non  vi può  essere.  Resta invece importante l’umiltà cognitiva, come consapevolezza, sul piano profano (due o tre gradini sotto il sacro…), del paradosso storico e sociologico.

Del resto  nel  Vangelo di   Matteo, non si legge forse, tra gli insegnamenti del Cristo, quel “Beati gli umili, perché a loro appartiene il Regno dei Cieli”?

Carlo Gambescia

(*) Aldo La Fata, Nella luce dei libri. Percorsi di lettura di un “Cavaliere errante”, Solfanelli, Chieti 2022, pp. 192, euro 14,00 (https://www.edizionisolfanelli.it/nellalucedeilibri.htm ).

 

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