Giorgia Meloni si lamenta. Parla di campagne di odio da parte della sinistra. In particolare del Partito democratico. Che, quando si dice il caso, è il suo primo avversario politico. Però l’ “auto-vittimizzazione”, come è noto, paga elettoralmente. Quindi ci si permetta di avanzare qualche sospetto sulla buona fede di Giorgia Meloni.
Del resto storicamente, non sarebbe neppure la prima volta: più odio, più voti. Come ad esempio insegna – si parva licet – l’ascesa di Hitler. Ma si potrebbe risalire addirittura a Napoleone III, idolo dei contadini francesi antiaristocratici. Ma anche all’ “epopea” di Berlusconi, per fare altro esempio più vicino a noi.
Piaccia o meno ma le democrazia ugualitarie, funzionano così: a colpi di maggioranze, da perseguire a ogni costo, molto spesso attraverso campagne di odio sociale.
Non siamo i primi a scoprire la cosa: l’odio politico nasce dal risentimento, il risentimento sorge a sua volta dal sentimento di uguaglianza, addirittura sostanziale, perciò irrealizzabile, proprio perché tale. Come è possibile per tutti, conseguire, non tanto l’uguaglianza di partenza, quanto quella di arrivo?
Di qui però, la ricerca del capro espiatorio antiugualitario, verso chiunque sia sopra, anche di poco. L’odio ovviamente cresce man mano che aumenta la distanza sociale.
In sintesi, nelle società, ugualitarie – dove viene predicata l’uguaglianza – il rischio dell’odio sociale e della disintegrazione è altissimo: cosa del resto dimostrata, al contrario, per durata storica dalla società antiugualitarie.
Con questo non vogliamo dire che l’antiugualitarismo, che ovviamente ha le sue controindicazioni, sia segno di esemplarità sociale. Ma più semplicemente asserire che dove si celebra l’uguaglianza, dal momento che la gente comune non è grado di fare tante distinzioni tra uguaglianza dei punti di partenza e di arrivo, cresce il risentimento e si moltiplica l’odio sociale.
Ovviamente, in questo clima i politici non osano parlare di meritocrazia, perché perderebbero voti. Di qui, l’uso politico dell’odio sociale che ha le sue radici nel diffuso risentimento antiugualitario, come si evince dal linguaggio violento usato dalla Meloni come dai suoi avversari. Di qui i dubbi che avanzavamo all’inizio.
Sotto questo aspetto, lo stato, anzi la macchina giuridica dello stato, è giudicata al servizio dell’ugualitarismo. Ad esempio, per Giorgia Meloni gli italiani sono più uguali dei migranti. Mentre per i suoi avversari, i migranti sono più uguali degli italiani.
Si dirà che esageriamo, perché la sinistra vuole la parificazione dei diritti, mentre la destra discrimina, per così dire, tra bianchi e neri. In realtà, il concetto sovrastante è sempre lo stesso: non si ragiona di meriti e di capacità (di chi meriti e perché), ma di bisogni ( di chi abbia bisogno e di che cosa).
La logica dell’ugualitarismo, come per il comunismo, rinvia al famigerato metro del “da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i sui bisogni”.
Di conseguenza, l’apparato giuridico dello stato diventa una macchina normativa e livellatrice al servizio dell’odio sociale di stampo ugualitarista degli uni come degli altri
Si dirà, ma allora la parità dei diritti, eccetera? In realtà, come detto, non si parla di diritti ma di bisogni, qualcosa di necessario, a prescindere. Bisogni che, in quando tali, devono essere convertiti in diritti. Ed è proprio la conversione ad opera dello stato che crea ulteriori discriminazioni: perché i bisogni, una volta divenuti normativi, implicano, proprio perché bisogni tradotti in norme, classificazioni in base al reddito, alla condizione sociale, ai livelli di istruzione, eccetera. Di qui lo scontento degli inevitabili esclusi, il risentimento, l’odio sociale, eccetera.
Purtroppo non c’è via d’uscita. Quanto più ci si allontana dal liberalismo meritocratico, tanto più ci si avvicina allo statalismo ugualitarista. Piaccia o meno, non si può essere ugualitaristi e meritocratici al tempo stesso.
Esageriamo? Esistono vie di mezzo? Non ci pronunciamo. Una cosa però è sicura. Che la macchina statale, una volta in messa, non può essere arrestata facilmente. Questa è la lezione, piaccia o meno, del XX secolo.
Una posizione, quella ugualitarista-statalista che accomuna concettualmente la destra di Giorgia Meloni e i suoi avversari liberalsocialisti. Di qui, quel risentimento generale, diffuso, che sfocia, per ragioni elettorali, in campagne d’odio che abbracciano quasi tutti i partiti dalla destra alla sinistra.
Si rifletta su un punto. Giorgia Meloni, combatte l’ideologia di genere in quanto tale. Se andasse al potere, userebbe la macchina statale contro di essa. I suoi avversari, che invece la condividono, una volta al potere, userebbero la macchina statale per imporla.
Ci si muove comunque – ecco il punto importante – nell’alveo dell’ugualitarismo statalista. Non si lascia ai singoli libertà di scelta, diciamo tra due filosofie, ma si vuole imporre dall’alto, una filosofia di stato pro o contro l’ideologia di genere.
Si prenda anche la questione – semplificando – del suicidio assistito. Per la destra è omicidio, per la sinistra un diritto-bisogno. In realtà non è nell’uno né l’altro. E allora che cosa si dovrebbe fare? Invece di promulgare leggi si depenalizzi e si lasci ai singoli individui la libertà di decidere cosa fare della propria vita, e non al magistrato, alla commissione Asl, eccetera, eccetera.
Fino a quando non si uscirà dal circolo vizioso dello statalismo ugualitarista, le campagne di odio continueranno, perché funzionali a una politica del risentimento, che, ripetiamo, non si fonda sulla libertà individuale e la meritocrazia ma sull’ugualitarismo e sullo statalismo.
Carlo Gambescia
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