Coronavirus e diritti
“Per non gravare sulla sanità pubblica...”
Se esiste un’espressione che riassume tutti i
limiti, anzi diremmo l’impotenza dello
statalismo è quella più volta usata in questi mesi. Quale? Di non infettarsi “per non gravare sulla
sanità pubblica” e poter così essere curati bene - ecco il veleno socialista
- dal
Servizio Sanitario Nazionale.
Si
noti la contraddizione: per un verso si pontifica a proposito di un diritto universale alla salute, per l’altro
lo si collega a una struttura pubblica che però "cura bene" gli ammalati imponendo il numero
chiuso.
Ci
spieghiamo meglio. Lo Stato non può non prendere atto - certo ufficiosamente - dell’impossibilità per ragioni oggettive di bilancio e funzionalità di poter curare tutti e bene, ma al tempo stesso non vuole essere accusato,
ufficialmente, di mancare al suo impegno
sociale sulla difesa dei grandi principi, sui quali si regge il consenso al
welfarismo, come per l’appunto, il diritto alla salute.
Di
conseguenza lo stato, consapevole di mentire, è costretto a nascondersi dietro il numero
chiuso e le graduatorie in base alla rilevanza sociale ed economica delle
malattie e dei malati. Il che però, sia detto per inciso, annulla o mitiga
notevolmente la proclamata natura universalistica del diritto alla salute, che,
proprio perché patrimonio di tutti, non dovrebbe ammettere eccezioni e
distinzioni tra poveri e ricchi, tra
malati gravi e malati meno gravi.
Sono
nodi che non possono non venire al pettine nelle situazioni di emergenza. Che inevitabilmente amplificano
la natura contraddittoria di un diritto alla salute implementato dallo stato fino al paradosso di dover adottare misure liberticide per garantire
il diritto alla salute, presentato come il punto più alto della libertà dell’uomo.
Tra
l’altro, il diritto alla salute, pur di giustificare i provvedimenti liberticidi,
viene trasformato dallo stato, in “obbligo”
alla salute, in "dovere" insomma. Un "dovere" dal quale lo stato, in primis, non può esimersi. E in che modo? Addirittura limitando, se e
quando necessario, la libertà, bene minore, rispetto alla salute, bene maggiore.
Un
tratto quest’ultimo tipico del welfarismo, e di ogni altra forma di statalismo,
che pretende di sapere ciò che sia bene per ogni singolo cittadino.
Si
dirà: ma lo stato, potrebbe investire di più nella sanità, eccetera, eccetera.
In realtà, gli esperimenti socialisti e welfaristi provano che il
Servizio Sanitario Nazionale è fonte di
sprechi, burocratismi, corruzione, nonché
di numerosi casi di malasanità. I suoi
difensori, di regola, lo oppongono ai sistemi privati, come ad
esempio quello americano. Al di là dei dati effettivi, può darsi che i sistemi
pubblici, a parità di funzionamento con quelli privati, siano più inclusivi.
Ma
l’inclusività è sinonimo, come abbiamo
visto, di illibertà. Nei sistemi
welfaristi, il diritto alla salute, pur non potendo essere soddisfatto per
ragioni oggettive, si trasforma nel "dovere" di essere sani, consentendo allo
stato di privare i cittadini della libertà.
Pertanto la scelta di fondo resta
quella tra inclusività, che non
significa protezione assoluta dalle malattie, e libertà, senza la quale i diritti
possono però essere limitati, persino in modo assoluto.
Carlo Gambescia