domenica 12 gennaio 2020

Una risposta a Massimo Maraviglia
 Si può insegnare il bene? 


Massimo Maraviglia  (nella foto)  probabilmente  rimane,  tra le tante persone  che ho conosciuto in quindici anni di Web, la più interessante. Alla preparazione  filosofica di prim’ordine unisce una notevole capacità di ascolto e argomentazione, pur avendo  proprie idee filosofiche e politiche.

I  suoi  “tag” sono sempre stimolanti. Cosa che non capita di frequente sui social.  Ieri per esempio ha pubblicato un ottimo riassunto del Filebo che mi ha  spinto a riflettere sulla possibilità di insegnare il bene (*) . Di qui  un icastico scambio  di battute tra noi  che riporto:

Carlo Gambescia Si può insegnare il bene? Esiste una scienza del bene? La conoscenza è virtù? :-) Comunque sia, caro Massimo, sei un ottimo docente.

Massimo Maraviglia Grazie Carlo...sempre gentilissimo!!! ...si potrebbe anche domandare: "Si può fare a meno di una scienza del bene?" ...e: "Quale scienza in ultima istanza non è una scienza del bene?".

In effetti, la risposta di Massimo Meraviglia, seppure breve, come il mio commento del resto,  pone un problema di fondo, altrettanto importante, sulla  natura cognitiva del sapere morale.
Ora, dal  punto di vista filosofico, diciamo  “platonico-socratico” ,che è quello di Massimo (credo…),  si può concedere  che sia  più che accettabile  il momento costruttivista del pensiero.  
Come fare a meno di una scienza del bene?  Cioè,  di perseguire, dunque costruire,  attraverso un metodo,  quindi trasmissibile agli altri -  perciò “insegnabile” - il bene?  Rifuggo  dalla definizione di bene, perché porterebbe troppo lontano. Ne do per scontato  il contenuto libero. Anche perché sono interessato a  un altro aspetto, quello sociologico, che esula sotto l'aspetto  disciplinare dalle questioni  filosofiche. 
Punto di vista,  che  è il mio, umilissimo per carità.  Da  sociologo peón rifletto sul momento costruttivo del pensiero e  sulla  sua  trasmissibilità.  Due attività che implicano un  processo sociale, cioè una dinamica che rinvia all’interazione tra individui e ai prodotti sociali che ne derivano.
Ora, il concetto di individuo implica diversità di condizione, intelligenza, volontà. Quindi il bene, non sempre (diciamo per ora così...) può essere capito e accettato da tutti.  Inoltre,  il prodotto sociale, non è  che l' istituzione,  cioè la condensazione sociale  di  forme di comportamento che hanno logica propria, logica  che implica la “routinizzazione” del bene.
Cosa voglio dire?  Che la “scienza del bene” non può non  fare i conti con la riproduzione sociale del bene, l’istituzionalizzazione.  Alla presuntiva  perfezione del sistema filosofico, risponde la consuntiva imperfezione dei sistemi sociali, racchiusa nelle inevitabili formalizzazioni-standardizzazioni del bene. O se si vuole di  banalizzazione quotidiana  del bene.  Il che significa che il bene si può anche insegnare, ma che inevitabilmente, ogni individuo reagirà secondo i propri mezzi, e ogni istituzione secondo i propri bisogni.  
Di qui  però  quel fenomeno che si  chiama  costruttivismo sociale, cioè la  credenza, in una realtà politica (non filosofica) che ritiene che individui e istituzioni, visti come privi di logiche proprie, possano essere radicalmente  plasmati e  riplasmati  grazie all’insegnamento del bene. Una trasmissione  che però  -  ecco il punto critico -   per ricaduta sociologica, non può non tradursi in forme di routinizzazione del bene. In  qualcosa che sarà sempre inferiore all’idea di bene - qualunque essa sia - che il costruttivista politico persegue.      
Sicché il totalitarismo politico  diventa il prolungamento sociale inevitabile dell’ approccio costruttivista. Esagero?   Diciamo che tra il welfare state e lo stato caserma c’è una differenza di grado ma  non di specie.  Di conseguenza,  la “scienza del bene”, di cui non si può fare filosoficamente a meno, sociologicamente parlando  rappresenta  un rischio politico,  di cui si potrebbe  - o addirittura si  dovrebbe  -   fare a meno.  Ma come?

Puntando sull’educazione individuale, su un processo di crescita del singolo, che non implichi la trasmissibilità  sociale e dunque  il rischio di  politicizzazione- banalizzazione del bene?   
Sociologicamente parlando,  l’individuo cambia idea, per paura, necessità, convenienza, conformismo,  persuasione.  Ora, per parafrasare una celebre formula, si può opporre la persuasione filosofica, individuale, alla retorica sociale, collettiva,   ma non alla paura, alla necessità, alla convenienza, al  conformismo.  
Perciò, come si può capire i margini sociologici di una “scienza del bene” sono piuttosto esigui.  
Questo però non significa che il bene, qualunque esso sia, non si possa insegnare, filosoficamente insegnare.  Certo che si può fare, ci mancherebbe altro. Tenendo però presente che la sociologia  ci dice che saranno sempre in pochi a evolvere. Gli altri, la maggioranza, banalizzeranno, per paura, necessità, convenienza, conformismo. Perché, in ultima istanza, le  società o sono banali o non sono.    
Più si ignora questa  regolarità metapolitica più si rischia, pur proponendosi gli scopi più nobili,  di trasformare la banalità del bene in banalità del male.  Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia



                   

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