martedì 14 gennaio 2020

Si può insegnare il bene? 
Le risposte di  Massimo Maraviglia e Carlo Pompei

***
Una questione di purezza

di Massimo Maraviglia


Caro Carlo,

La filosofia prende gli argomenti su cui non esiste un accordo e comincia a trattarne. Per questo nella tradizione occidentale, essa coincide con la dialettica, luogo di incontro-scontro nel dialogo di posizioni opposte alla ricerca di una sintesi che tutti possono onestamente riconoscere come vera. 
Dunque l’argomento della varietà e della disparità di opinioni, per quanto ritornante nella storia del pensiero, appartiene più alla storia del tentativo ritornante della sua negazione: inutile pensare, troppo complicato;  nulla è vero, tutto è troppo difficile; ricerchiamo in eterno e in eterno domandiamo, la risposta è troppo impegnativa … 
Questo è il destino del bene nelle reti sofistiche del relativismo e dello scetticismo! Ma la filosofia pisciforme e libera sfugge alle maglie relativistiche e pone continuamente il problema del bene. Quasi non potesse farne a meno. Quasi irretita in altre reti dal suo irresistibile fascino. Quasi chiamata al suo destino: uscire al sole, farsi abbagliare dai suoi raggi, dopo la lunga e faticosa prigionia nella caverna. Il mito platonico tocca corde profondissime … Tre volte grande bisognerebbe chiamare quello della caverna: grande nell’essere, grande nel conoscere, grande nel vivere: il sole dell’essere, la luce del conoscere e poi la passione del vivere che è quella propriamente umana di tornare ostinatamente dentro la caverna per chiamare i compagni di prigionia, ora divenuti amici, a farsi evangelizzare dalla luce. Ma “i suoi non lo riconobbero”: il destino della filosofia e della sua buona notizia al contatto con la res dura del mondo. 
Che cosa distingue Cristo da Platone? La vocazione alla riforma politica in Cristo diventa un affare enormemente più complesso. Tutti e due sono nel mondo, solo Cristo non è del mondo, e quindi costringe il pensiero politico a pensare il regno terreno solo attraverso il filtro di quello escatologico (benché anche lungo tale cammino il Filosofo ateniese compia passi da gigante). Mai e poi mai ti sarà concesso di illuminare la caverna in modo definitivo. Il bene ha una sua chimica che reagisce in modo imprevedibile al contatto con la pòlis
Platone lo capisce: infatti i cavernicoli vogliono uccidere l’uomo libero. Lenin ne trae le dovute conseguenze: useremo lo Stato per schiacciare senza pietà i recalcitranti, gli ostinati, coloro che per interesse o cecità non accettano la Giustizia. Adorno registra la contraddizione e pone l’alternativa: o dedicarsi alla purezza del pensiero, condannandosi all’impotenza; o promuovere un pensiero che  si invera nella prassi e si consegna inevitabilmente alle dinamiche di dominio. Forse non c’è rimedio. Se si considera il bene come l’utopia e la sua trascendenza come l’affermazione di un’inconciliabilità, la disfatta è assicurata. Ma il bene è il bene di queste cose, di questa vita, di questo mondo. La sua purezza è la purezza di qualcosa. 
Su ciò insiste il Filebo. La purezza è una purificazione di vite concrete, che sono sempre miste, complicate, un pizzico bastarde … compito dell’uomo è ricostruire con la ragione, se mai esiste un costruttivismo è solo questo, questa mescolanza, facendone un’elevata mescolanza di purezze: ciò è piacere e intelligenza! Il bene dunque è la purezza che rende trasparenti le mescolanze, e perciò le eleva verso la loro integrità, dove non manca nulla: bonum ex integra causa. Esso pertanto, contro ogni apparente difformità, è connaturale all’essere, è il naturale cammino di ogni cosa che tappa i buchi delle proprie mancanze e tende al meglio di sé (il Filebo prepara la critica aristotelica alla trascendenza del bene, ma al tempo stesso la rende inutile). Bonum et ens convertuntur
Perciò non se ne può fare a meno anche in politica. Non si può evitare la banalizzazione del bene: certo, come tu giustamente affermi: la società è banale o non è. Ma non si esce dalla sua necessità, perché il bene della convivenza è la convivenza. Mentre noi lo pensiamo siamo costretti ad essere platonici, cioè dobbiamo pensarlo nella sua purezza, mentre lo viviamo siamo costretti ad essere aristotelici, cioè lo dobbiamo sperimentare nella sua immanenza, mentre lo costruiamo politicamente dobbiamo essere cristiani, cioè capire che il suo Regno non è di questo mondo, ma che in questo mondo può iniziare (altrimenti Cristo non sarebbe al tempo stesso il Messia definitivo e il Signore della storia). 
Così facendo fuggiamo da una triplice eresia: il donatismo, il monofisismo, il pelagianesimo: pensare in modo puritano il bene come tutto il rigore che posso imporre agli altri; pensare in modo cataro-manicheo il bene come un’alterità disincarnata che rifiuta il  mondo, il quale dunque è consegnato inevitabilmente alle sue logiche; pensare in modo prometeico il bene come mio possesso in modo tale da ritenermi capace di salvare il mondo … così … con la mia forza s-graziata e senza cadere nella dis-grazia. 
Alla fine di questo percorso, però, bisogna farsi una risata. Sto leggendo un autore straordinario, un argentino nel quale si respira la metafisica dell’Occidente che, nell’estremo occidente, dalle pianure sterminate della Patagonia alle rarefatte altezze delle Ande, sembra che trovi il suo peculiare compimento. L’esperienza del Sudamerica è un’esperienza squisitamente occidentale: mi trovo molto di più nel misticismo denso di fede e di ironia di un Leopoldo Marechal (l’autore in questione) - il cui mondo pieno di angeli, demoni, preti, avventurieri a cavallo, clown, magnati in ricerca, puttane e filosofi, vive al ritmo di un tango metafisico - che nei costruttivismi ultra-anti-moderni di un Dugin (dove rischia di albergare l’eterna tentazione del radicalismo nichilista … ogni russo, temo, nasconde un Nečaev). 
Ora, grazie a Marechal si comprende che l’ironia non è un’arma, uno strumento per altri fini, come in ogni costruttivismo che ne ha bisogno per radere al suolo il passato, ma un effetto: l’effetto comico della giustapposizione della misura umana e dell’eterno. Essa produce conseguenze grottesche e surreali e infine fa ridere di gusto. Forse il primo gesto di Adamo guardando il suo Creatore, e guardandosi al suo cospetto, fu quello di ridere. Forse il Creatore, potendo vedere la scena dall’esterno, fu parimenti colto dall’irrefrenabile voglia di scoppiare a ridere. Dentro questa laïcité occidentale della risata, che relativizza le ricorrenti tentazioni totalitarie della sua storia, c’è il segreto di una convivenza possibile al cospetto, in ricerca, in ossequio, con la passione e infine con il sorriso del bene.
Un caro saluto,

Massimo Maraviglia  (*)

(*) Filosofo e docente.


***

Bene, l’importanza di porsi la domanda

di Carlo Pompei


Caro  Carlo,

Premetto che a mio giudizio lo Stato non può essere etico in quanto tale e in quanto emanazione umana di una interpretazione parziale di quanto sia bene o male per i cittadini che ne fanno parte.
Mi riferisco alle "conseguenze algebriche del fare" (che spiego nel libro che sto scrivendo), ovvero quella particolare "scienza non ufficiale" la quale sostituisce variabili sociologiche (etiche, opportunistiche, religiose o meno che siano, etc.) ai "numeri fissi", ovvero ancora ciò che non ha risultato certo fin quando alle incognite non viene assegnato un valore certo (o attribuito, ma in attesa di verifica).
Tutto ciò si manifesta anche in funzione di volontà (positiva o negativa), talento (di norma positivo, ma non sempre) e possibilità, dal valore neutro fin quando essa non viene posta in relazione al valore – positivo o negativo – del talento e della volontà relativa.
Frustrazione, depressione e invidia, suicidio o rivalsa, vendetta o perdono sono i risultati che si ottengono più spesso a seconda delle variabili.
Potremmo quindi parlare di male neutro per la società (autolesionistico verso il sé), male assoluto (verso gli altri), bene relativo (di nuovo verso il sé, ma che potrebbe essere male per gli altri) e infine bene assoluto (per sé e per tutti gli altri, ma proprio tutti, ossia l'impossibile).
Quanto se ne deduce (a mio giudizio e capacità intellettiva, ovviamente) è la conferma che nel percorso che da Esiodo porta a Jung, l'ordine (per trasposizione arbitraria ottimistica e positivistica, il "bene") sia umano, quantomeno nella volontà appunto positiva, mentre il disordine sia naturale, pertanto divino, in contrapposizione paradossale alle affermazioni dogmatiche religiose, le quali attribuiscono accezione e valore positivo a prescindere al "religere", forzatamente tradotto in "unione".
Forzatamente perché si tratta di unione parziale (partitica o religiosa), quindi – in ultima istanza – di micro unione di gruppi relegati (masse) e macro divisione tra essi, comunque distinti, a volte alleati, più spesso violentemente contrapposti, apparentemente liberi come struttura comunitaria, ma nient'affatto tali sul piano individuale, se non in chiave  illusoria.
Temo si tratti di qualcosa che va oltre le umane capacità di comprendere, ma è già tuttavia un "bene" porsi tale domande e che esse siano diffuse e proposte quanto più sia possibile, anche se una risposta definitiva, date le variabili imperscrutabili, penso sia impossibile da fornire.
Un forte abbraccio,

Carlo Pompei (*)

(*) Giornalista e insegnante