mercoledì 15 gennaio 2020

Si può insegnare il bene?
La replica di Carlo Gambescia




Cari Massimo Maraviglia, Aldo La Fata, Carlo Pompei,

Innanzitutto   grazie   per  la squisitezza , come si diceva un tempo,  di prendere carta e penna e rispondere al mio scritto (1).   
Che dire? Il tuo  sapere filosofico  Massimo  mi sbalordisce e conquista. La tua  onestà cognitiva, Aldo,  frutto di intenso studio e non di cleptomania intellettuale, desta la mia ammirazione.  Quanto a te,  Carlo, come ben sai,    apprezzo  da sempre   il tuo  metodo, il famoso “metodo Pompei”.
Detto questo, abbandono il tu, per passare a un tono meno personale. Insomma, "rivestito condecentemente" entro nel merito della discussione.
Noto una convergenza   su un punto  non secondario:  il rifiuto  di credere  nel  sapere  assoluto e definitivo.  Ne discende, come per forza di gravità, una onesta  capacità di ragionamento e ascolto dell'altro.
Dopo di che però iniziano le divergenze, non gravi ma tali,  quanto meno  con  Massimo Meraviglia (2).   Il quale, oltre a ricondurre   l’idea di bene  nell'alveo della  "purezza",  vissuta  - credo, da umile sociologo - come autenticità di vita, pensiero e  fede,  ritiene possibile, chiudendo il cerchio, l'insegnamento del bene, proprio in nome di un'autenticità cognitivo-esistenziale di natura  platonico-cristiana, per metterla sul dotto.
Certo, Maraviglia, come si sottolinea nella chiusa, raccomanda  il buon uso di  una sana ironia che sgorghi  dall’ “effetto comico della giustapposizione della misura umana e dell’eterno”. Il che può aiutare a evitare soluzioni  donatiste, monofisiste, pelagiane.  Ma non, come all'epoca,  il tragicomico ripetersi dell'  andirivieni della romana Statua della Vittoria dalla curia senatoriale. O la ricorrente chiusura di chiese cristiane e templi pagani  in base al credo imperiale del momento. 
Aldo La Fata (3) e Carlo Pompei (4)  ritengono invece   -  semplifico -  che l’autenticità  non sia di questo mondo. Di qui, il ripiegamento  verso un’ “etica universale” frutto di comportamenti applicati, liberamente scelti: qualcosa che viene dopo il bene-autenticità (La Fata).  Oppure  verso la  consapevolezza   che  il vero padrone  (di questo mondo)  sia il disordine e  non l’ordine:  qualcosa che viene prima del bene-autenticità (Pompei). Ferma restando l’importanza di continuare a interrogarsi sul natura del bene (sempre Pompei).
Come conciliare, ecco il punto però, autenticità  (Maraviglia), etica universale (La Fata), disordine (Pompei) con le strutture sociali?  O più  precisamente con la trasmissione istituzionalizzata del  bene, una volta  individuato e definito (Maraviglia)?
Maraviglia punta sul volontarismo intellettuale corretto con l’ironia, parleremmo di esistenzialismo cristiano (con lo sguardo decisamente rivolto verso l'Alto però...); La Fata privilegia  la forza dell’esempio, rinviando a una specie di  sturziana sociologia del sovrannaturale;  Pompei, attento al basso profondo di una contraddittoria discontinuità sociale,  non crede neppure in quest’ultima. Sicché sembra propendere verso una umanissima sociologia del disordine ordinato.
Mi sento più vicino alla posizione di  Pompei:  dal disordine può nascere l’ordine, ma anche altro disordine, oppure dall’ordine il disordine,  o altro ordine ancora.  Tutto è possibile. Eccetto il venire meno, così almeno si intuisce,  delle regolarità metapolitiche del conflitto, della cooperazione, della circolazione delle élite, eccetera, eccetera. Le forme dei fenomeni. E anche questo è condivisibile.
La società semplifica, istituzionalizza, routinizza - nel bene e nel male -  quel che ha sottomano:  in qualche misura la società  è  frutto di un' arte del possibile che va a intersecarsi con le forme metapolitiche. Di conseguenza,  sullo sfondo della sotterranea  dinamica tra ordine e disordine, l’autenticità rischia sempre di raccogliere la sfida dell'occasionalismo, rivolta alla sostanza storica transeunte e non alle sue forme metapolitiche.  Dal momento che  il volontarista  è quasi sempre disarmato.  E se armato può addirittura diventare pericoloso, perché nel suo impeto romantico, intellettualizzato o meno,  rischia di  farsi costruttivista: di fare dell'esistenza una missione,  di cogliere l'attimo scorgendovi un eterno che altri non sempre scorgono. Di qui, sul piano istituzionale, la inevitabile imposizione/e-semplificazione.
Del resto,  per venire a La Fata,  lo stesso esempio,  può essere frainteso, estremizzato, sopravvalutato, perfino  viziato dal timore e dal conformismo.  La sociologia del soprannaturale, sotto la bandiera dell'ideale,  si può tramutare in sociologia del naturale, come del resto mostra la storia delle religioni istituzionalizzate. Cosa che, attenzione, riguarda anche le fedi politiche, persino quelle apparentemente più innocue.  
No,  il bene non si può insegnare.  Si possono insegnare, come osserva La Fata, “la buona educazione, il rispetto dell'altro ecc. ecc.,  ma non il bene in sé”. Se si vuole,  si possono insegnare  le forme. La sostanza è a contenuto libero: muta storicamente, da Pericle a Lenin, dagli Eleatici alla scuola di Francoforte.  E anche qui, con corsi e ricorsi, come hanno insegnato Vico e Sorokin. Il che indica che nella sostanza stessa, c'è una forma metapolitica.  E' vero che non ci si bagna per due volte di seguito nelle acque  di un fiume, ma è altrettanto vero, che le  acque  sono  obbligate ad assumere la forma degli argini che le delimitano.   E se viene meno la forma, le acque straripano, distruggendo uomini e cose. E lo stesso capita con i sentimenti, che con  forma figurata, e giustamente, si dice che "straripino"...   E che cos'è l' autenticità?  Se non il sogno di una verità capace di  imporsi da sola, in tutta la sua purezza?  Acque che non avrebbero bisogno di argini....  Di forme, insomma... 
Salvo poi doverle imporre, non solo perché  come accade inevitabilmente, alcuni si ritengono più "autentici" di altri, ma perché così impone il vivere sociale, che si fonda sulla prevedibilità delle forme.    
Sicché  non esiste neppure una scienza del bene. Esiste la sociologia, che è scienza delle dinamiche oggettive dell’ordine e del disordine,  delle forme  di ciò che è possibile. Sotto questo aspetto la sociologia  è  una scienza triste,  né rivoluzionaria né  conservatrice. La sociologia alza le braccia, malinconicamente ma giustamente, dinanzi a quelle che Carlo Pompei definisce  “variabili imperscrutabili”
E dell’imperscrutabile, di ciò che è al di là del possibile e dell'impossibile,  quindi impenetrabile, come contenuto,  non si può fare scienza né insegnamento. 
Un grande abbraccio,