Per una sociologia senza aggettivi (politici)
Uno su mille ce la fa
Si
può parlare di una sociologia liberale, marxista, cristiana, tradizionalista,
conservatrice? Dipende da cosa si intende per sociologia. Se per sociologia si intendesse esclusivamente lo studio
scientifico della società, puntando sulla conoscenza, ideologicamente neutrale, di "leggi", regolarità, costanti, come quel che avviene e si ripete (quel che è), a prescindere
dai desiderata ideologici degli uomini (quel che dovrebbe essere), allora, forse, un forse sottolineato due volte, si potrebbe parlare di una sociologia priva di aggettivi politici e ideologici.
Ma non è così semplice, come si può intuire. Infatti, dal momento che ciò che è, non è tale
per tutti, ecco che un tradizionalista, un cristiano, un marxista, un conservatore, un
liberale, tenderanno a non riconoscere
alcuno statuto di scientificità alla
sociologia, perché quei fatti non risponderebbero alla "vera" realtà. In questo senso, esistono sociologie (ufficiali o meno), tradizionaliste, liberali, cristiane, eccetera. Che però non sono sociologie, ma concezioni sociali.
Dov'è l'errore? Nel privilegiare (semplificando) una concezione ideale sulla
società (quindi una sociologia con gli aggettivi) rispetto al reale
funzionamento della società (studiato
dalla sociologia senza aggettivi).
Ad
esempio, si pensi al concetto di società: il liberale scorge individui che interagiscono perseguendo (ognuno) i propri scopi; un marxista vede
solo classi che confliggono; un tradizionalista, solo caste e individui,
superiori; un cristiano la mano di dio, un conservatore, aristocrazie e
istituzioni secolari.
Però
ecco la domanda di fondo: cosa vedrà, un
sociologo senza aggettivi? Vedrà interazioni tra individui, conflitti tra
gruppi sociali, gerarchie e poteri carismatici, istituzionali e di status. Ciò che in qualche misura, con
accenti maggiori o minori, si ripete a livello formale, pur assumendo, di volta in volta, contenuti
storici e ideologici differenti.
Insomma, ogni
società è e sarà sempre - certo, con “dosaggi” diversi - un
insieme di tutte queste cose. Forme sociali che vanno
a tradursi in regolarità o costanti sociale. Si pensi ad esempio, tra le altre, alla "legge" di circolazione delle élites sociali; élites che si compongono di
individui che interagiscono più o meno razionalmente, che come gruppo sociale confliggono con altri
gruppi; che ricorrono - tra gli altri poteri - al potere carismatico; che si identificano con istituzioni; che rivendicano
status e si strutturano gerarchicamente.
Le élites vincono, governano (bene o male), soccombono, posso resistere secoli o pochi decenni, ma - cosa certa - sono condannate a circolare e, soprattutto, proprio perché tali, a rimanere patrimonio di pochi
individui, volpi e leoni al tempo stesso: i migliori (sempre in senso relativo), in quel dato momento storico. Il che
però non esclude, ricambio e circolazione interna, così come quella trasformazione, abbondantemente studiata, della “piramide” sociale in “trottola” e viceversa.
Pertanto,
la sociologia senza aggettivi, ci
illumina su quello che non potrà mai
avvenire: la nascita di una società priva di individui interagenti, classi, poteri carismatici, istituzioni e status sociali.
Il
che non è poco. Ma è anche evidente che le concezioni ideali sulla società hanno una loro utilità dal punto di vista della dinamica socioculturale, della circolazione delle élites, perché forniscono princìpi di legittimità differenti (se non opposti), che se recepiti e propugnati, vanno a incidere - come dire, al di là del bene e del male - sul funzionamento reale della società.
Però, il punto di discrimine, tra l'ideologo e il sociologo senza aggettivi, è che l'ideologo-sociologo (liberale, cristiano, marxista, tradizionalista, conservatore, eccetera), vi "crede" fino in fondo, ignorando la differenza tra ciò che può essere e ciò che non potrà mai essere, mentre il sociologo senza aggettivi distingue le due cose e, pur avendo un suo credo ideologico personale come tutti gli essere umani (che può essere liberale, cristiano, marxista, eccetera), sa però dove fermarsi. Si chiama etica della responsabilità ( o dei mezzi).
Il tutto, ovviamente, fatta salva l'applicazione-estensione, che si ritrova nella realtà, delle stesse credenze e costanti di cui sopra, ai poteri sezionali ( da quello accademico, a quello economico, e così via). Ciò significa, che il sociologo stesso risente della distribuzione dei poteri culturali, economici e sociali. Però una cosa è "saperlo", e agire di conseguenza, accettando o meno le conseguenze "morali" dei propri atti, un'altra "credere" di poter realizzare su questa terra una società totalmente libera, oppure vagheggiare passate età dell'oro: libere, l'una come le altre, da qualsiasi condizionamento di fatto. Ignorando così bellamente, o per ingenuità o per malafede, le regolarità di cui abbiamo fin qui parlato. Dunque, senza preoccuparsi delle conseguenze fattuali, individuali e sociali dei propri atti e degli atti collettivi, racchiuse nella severa pendolarità trans-storica delle forme-costanti, magari evocando, come arma di difesa, una dolciastra etica delle convinzioni (o dei valori), dai contenuti metastorici o preistorici.
La sociologia senza aggettivi è perciò un' impresa molto difficile, per spiriti forti, realmente liberi. Uno su mille ce la fa...
Carlo Gambescia
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